Maschere del teatro greco

Idealismo negativo

Idealismo negativo. La potenza visionaria della nostra mente si esprime soprattutto attraverso la intuizione: la chiamerei simbolica se produce e purtroppo obbedisce ai suoi stessi simboli. E’ importante se resta aperta alla libertà e soprattutto, in senso progressivo, dischiude nuove visioni del mondo a carattere utopistico politico o estetico artistico. Ma le prime devono anche mantenere un contatto con la realtà, le seconde incrementare la vitalità e la volontà di vivere. In caso contrario entrambi posso essere potentemente autodistruttive come accadde a tutte le forme di messianismo comunista o a all’ambaradan legato al rapporto tra musica e droga. Chiaramente stiamo parlando di mitologia moderna.

La chiamerei intuizione conoscitiva se apre di colpo la mente a nuove soluzioni riguardo a problemi rimasti insoluti. Anche questa però per non restare un fantasma solo ipotetico e immaginario ha bisogno di deduzione (per trovare una forma logica coerente accettabile) e soprattutto verificazione per dimostrare di mordere la realtà sul piano effettuale e non di essere solo intelligenza che sogna. Tutto questo ancora non basta: ha bisogno di inserirsi dentro a un contesto scientifico profondamente modificato in senso metodologico, etico e valoriale.
Deve restare nella totalità per ricostruirla o addirittura salvarla e non frantumare la realtà offrendo le spoglie disarticolate allo sfruttamento indiscriminato del potere.

Entrambi queste intuizioni sono potentemente idealistiche perché non sono altro che creazioni della mente. Sono positive se rappresentano soprattutto una chiave di lettura e una possibilità di penetrazione della realtà; ma se tendono a sostituirla rinchiudendosi nella propria capacità rappresentativa autarchica, non rappresentano più una opportunità ma una prigione illusoria e regressiva in cui l’uomo si è messo con le sue stesse mani.

Uno potrebbe pensare che solo l’estrema destra obbedisca a intuizione simboliche inconsce archetipe ( il ritorno del re mago, etnocentrismo sacralizzato e la purezza della razza, il capro espiatorio ecc); mentre al contrario il comunismo no. Quel comunismo che però ha sortito orrori molto simili. Per questo non occorre scomodare la competizione del male tra Hitler e Stalin: basta andare molto più vicini, osservando come esempio di massacro sanguinario le gesta di Pol Pot e come universo totalmente coatto e concentrazionario la Corea del nord. Stiamo parlando di esempi sui quali non può più esserci il benché minimo dubbio. Di fatto il grande leader ha fatto recentemente un relazione di ore e ore in termini economici (chissà quante volte questo sarà successo nel mondo comunista, mentre tutti prendevano diligentemente appunti, senza nemmeno sapere se a sera sarebbero tornati a casa sani e salvi) quindi secondo canoni pseudo concettuali e pseudo scientifici (tali saranno sempre senza vero dibattito e confronto democratico e senza verificazione) salvo poi ricadere negli stessi comportamenti dei loro acerrimi nemici di estrema destra.. L’apparato intellettualistico della deduzione (inteso solo come autocoscienza formale che resta in realtà in superficie) non serve a salvarci dai trabocchetti dall’inconscio, anzi è un ottimo paravento e alibi per non vederlo.

In conclusione emergono due grandi critiche al povero Marx. E’ vero che la radice di tutto è l’uomo (e non l’economia come buona parte del marxismo volle fraintendere) ; ma a sua volta la vera radice dell’uomo è l’inconscio. Questo misconoscimento di ogni considerazione psicologica è esattamente ciò che ha favorito l’annullamento della radice umana rimasta solo un buon proposito e lettera morta. Infine l’economia (e la politica ancor di più) non sono, e non saranno mai delle vere scienze, tali da poter sortire dettami e parole d’ordine deterministici. Il marxismo che attaccava (giustamente la religione) si accingeva a diventare un religione mascherata , una nuova mitologia profetica e pseudo razionalista dietro alla quale nascondere e giustificare tanti comportamenti irrazionali, in primis ovviamente la violenza indiscriminata.

IDEALISMO E REALTA’

Quello che noi chiamiamo realtà (la cosa in se) esiste ma non per noi, e se Dio non esiste, allora non esiste per nessuno. Quella che chiamiamo realtà è solo la nostra coscienza e rappresentazione della realtà; quindi sembrerebbe che esistano tante realtà, quante sono le visioni che se la rappresentano. Tuttavia questa grande verità, deve essere presa con le pinze: sarebbe troppo facile, come è spesso accaduto, interpretarla nel senso di un pessimismo assoluto che finirebbe per negare del tutto la verità. Ora questa negazione coinvolge giustamente la possibilità a priori di una verità assoluta (la fine di un mito è sempre positiva) ; ma non la possibilità a posteriori, di un relativismo conoscitivo aperto a un incremento e a una evoluzione progressive. Con buona pace di coloro che vorrebbero che noi vivessimo solo in un mondo di fantasmi artefatti.

Infatti non è possibile che queste rappresentazioni siano tutte così catastroficamente diverse, altrimenti non potremmo assolutamente andare d’accordo su niente. Invece proprio perché c’è, su una base comune, una descrizione condivisa del mondo, sottoscriviamo insieme linguaggio ed esperienza: dunque devono essere molto simili tra di loro. Tuttavia possono anche esserci dei punti estremi di lontananza, che in ogni caso cercheremo di mitigare, come per esempio le illusioni ottiche. Qui veramente una apparenza fantastica sembrerebbe contraddire completamente la realtà: tuttavia è di enorme importanza, che quasi tutti questi stranissimi fenomeni, siano state svelati nei loro fallaci meccanismi percettivi. Anche questa è una dimostrazione non piccola, che la cosa in se non è quel mostro inafferabile. Per fare un altro esempio, si dice che i testimoni dello stesso incidente stradale diano diverse versioni dei fatti, quasi per darci a intendere che viviamo inesorabilmente in una babele inestricabile; ma questo dipende dalla diversità della prospettiva o da altre variabili (livello di attenzione, predisposizione dell’inconscio a favore o contro ecc). Ciò non toglie che solitamente, una indagine accorta che li metta criticamente tutti assieme, il più delle volte arriva a un verdetto sicuro o almeno condivisibile. Se non fosse così tutte le compagnie assicurative sarebbero già fallite e nessuno vorrebbe intraprendere questa ardua attività. In tribunale testimoni al di sopra di ogni sospetto, sembrano dire talvolta, cose completamente diverse. Certo questo fa parte della grande difficoltà dei procedimenti giudiziari; in ogni caso il più delle volte se ne viene a capo, altrimenti la giustizia non esisterebbe da nessuna parte. Possiamo pensare che tutti gli stati, che si fondano su questa importantissima funzione, in realtà si basano su dei cartoni animati? Sto cercando di dire che questa famigerata pluralità soggettiva della descrizione e testimonianza visiva della realtà, non è così grave e comunque è superabile, anche limitandosi alla superficie apparente della realtà. Kant a metà era super ottimista: matematica e geometria ci danno criteri decisivi di verità (universalità e necessità) su tempo e spazio, cioè sulle dimensioni fondamentali in cui si svolgono i fenomeni. Per l’altra metà era molto pessimista: questi stessi fenomeni non sono appunto la realtà così com’è (a prescindere da noi) ma come noi ce la rappresentiamo. Qualcuno ha detto che così facendo ha creato il grande (e insostenibile) paradosso, di rigorosi criteri di verità applicati però a un…sogno. Tutto dipende da come interpretiamo la rappresentazione percettiva: è una pura creazione soggettiva, o come in tutti i matrimoni, è anche “fecondata” dal suo incontro con la realtà?

Certo da un punto di vista metafisico, potremmo cercare sempre di unificarle, tutte queste rappresentazioni, in sintesi formali che si chiamano essenze universali; ma anche queste sono e saranno sempre, delle costruzioni soggettive ed epocali, tipiche della nostra condizione umana. Non sono però dei meri prodotti fantastici. Non penso che un marziano, con una intelligenza pari o superiore alla nostra, veda o interpreti un cavallo molto diversamente da noi ( a meno che non sia ancora un primitivo che ci scambi per dei centauri). In realtà anche con gli universali è stato fatto un notevole passo in avanti, dato che le rappresentazioni da individuali siamo riusciti a farle diventare collettive, escludendo cioè una volta per tutte, sia la pura invenzione individuale che la trappola di una singolarità totalmente rinchiusa in se stessa, autarchica e non confrontabile.

Diciamo che sono diventate appunto degli universali, cioè meno varie e più concentrate. Tornando a una impostazione pessimista potremmo dire che la realtà non esiste nemmeno se non appunto come rappresentazione volta a volta particolare; oppure come mistero assoluto, visto che di per se, non ha nemmeno coscienza di se stessa. Tuttavia per ritenere questi paradossi veri, dovremmo negare lo stesso sviluppo della conoscenza. Noi supponiamo l’esistenza di una realtà esterna di cui, in quanto tale, nella totale purezza della sua esteriorità separata, non sapremmo mai nulla; ma nemmeno lei sa nulla di se stessa. Una cosa esiste, ma se non sa di esistere, è come se non esistesse, se non appunto nel mistero del suo stesso occultamento (come l’inconscio). Non stiamo parlando solo dell’occultamento di quella materiale inorganica, ma anche di quella organica e di quella cosiddetta coscienziale (la nostra). Solo Dio, se esiste ha accesso a questo incredibile mistero, dato che l’ha fatta la realtà, e soprattutto attraverso la modalità di un sapere assoluto. Tuttavia a parte gli infiniti paradossi sull’esistenza di Dio ne citiamo uno solo, proprio sul suo sapere assoluto la realtà. Dovrebbe sapere, conoscere per filo e per segno come un calcolatore (appunto infinito) la mole di miliardi e miliardi di atoni e di cellule che eventualmente popolano e costituiscono l’universo; non solo, ma sapere anche come evolveranno, visto che sono sempre in movimento e mutazione. Che senso avrebbe questo processo nel suo cervellone, se poi tutto questo comunque va verso la distruzione e soprattutto, per la tutta dimensione organica, verso un’esistenza effimera e dolorosa? Proprio per evitare questo (ossia una dolorosa e assurda dispersione mentale) i Greci dicevano che Dio non pensa il mondo, ma pensa solo se stesso: tuttavia pensando solo se, cioè privo di mondo e di contenuti, alla fine pensa il nulla, ossia un potenza infinita ma vuota. Ma allora c’è da chiedersi perché l’ha prodotto il mondo o peggio ancora, perché l’ha subito (il Dio greco è misteriosamente coeterno alla materia, ma non l’ha fatta) visto che alla fine uno sta di qua, l’altro sta di la, come separati in casa. Se Dio pensasse il mondo sarebbe come se, dopo averlo fatto, partecipasse in piena scienza e coscienza, al dramma e alla tragedia dell’universo minuto per minuto… In poche parole il Dio non solo si angoscerebbe, vedendo in che condizioni si trova il mondo, ma soffrirebbe della sua stessa impotenza e auto-paralisi a salvarlo. Alla fin fine questo strano Dio auto-contemplativo esiste per soffrirci sopra, o appunto per fregarsene di tutto ciò…? Questa infatti è stata la più grande accusa che gli hanno fatto i cristiani, ossia di narcisismo e menefreghismo totale. Questi ultimi coerentemente (ma ancora più assurdamente) il problema l’hanno risolto così: Dio pensa sempre ai dolori del mondo (culminanti nel sacrificio sempre rinnovato del figlio) e gli uomini pensano sempre ai propri e a quelli di Dio… Insomma soffrono sempre tutti assieme umanamente e divinamente. La verità ultima è che il sapere assoluto (l’unico che possa superare la cosa in se), anche quando fingiamo che l’uomo possa raggiungerlo, anche anche quando supponiamo che Dio lo eserciti veramente, in realtà comporta un groviglio di contraddizioni e di situazioni insuperabili sia per la condizione umana che… per quella divina. Il sapere assoluto, la pretesa dello svelamento assoluto della cosa in se, ma anche all’opposto la presunta assolutezza di questa dimensione separata, inattaccabile e insormontabile, comportano entrambi quelli enigmi insolubili (e assurdi) così cari alla metafisica.

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Diverso è il discorso del reale contenuto di verità delle nostre rappresentazioni visto non più nella superficie esterna del mondo, ma nella profondità della nostra interiorità. La dove queste visioni sono spesso completamente diverse e incomunicabili, è nella rappresentazione del mondo interiore, nel modo come l’io concepisce ed espone se stesso. Infatti sappiamo che l’io non si concepisce come prodotto dall’inconscio, non solo per un cocciuto orgoglio di una fraintesa autonomia, ma appunto perché ovviamente, l’inconscio se ne sta nascosto e vuole restare nascosto. Addirittura spesso la costruzione manifesta del proprio io, è l’esatto opposto di quello che invece risulta essere nel segreto del proprio inconscio (la negazione freudiana). Ora queste tante realtà visionarie ( parziali, variegate, infinite?) sono dovute proprio alla finitezza dei soggetti conoscenti, che a causa di questa finitezza, non potendo superarla (questo vale per tutti i possibili soggetti finiti) costruiscono ed elaborano appunto visoni condizionate dovute a questa stessa finitezza. Tuttavia è vero anche il contrario: meno grande è questa finitezza, questo coefficiente negativo, è più aumenta la possibilità di avvicinarci alla cosa in se. Non è qui il caso di disquisire tecnicamente sui significati articolati e drammatici di questa finitezza (Kant lo ha fatto genialmente):questo assunto di un soggetto finito, in quanto tale incapace di cogliere totalmente la realtà, è fin troppo ovvio e banale. Per lo stesso motivo ne deriva una assunzione altrettanto banale,che il sapere assoluto non esiste e non potrà mai esistere. Solo un soggetto non limitato, cioè con infiniti poteri conoscitivi, (cioè Dio o un marziano extra-terrestre) potrebbe vedere la realtà finalmente così com’è veramente. Al di fuori di queste rappresentazioni soggettive, nessuno sa che cosa sia veramente la realtà, che pure esiste per conto suo. Tuttavia se la vera realtà esterna non esistesse, allora noi vivremmo come in un sogno, senza nemmeno avere la capacità di distinguere tra il sogno notturno e quello diurno. Non saremmo in grado di riconoscere e distinguere quella parte del sogno che ci illudiamo essere la realtà esterna, mentre sono la stessa cosa, sia pure con prospettive diverse. Questa è una delle tante ipotesi presentate dai paradossi della filosofia, ma è talmente assurda, che almeno per il momento la tralasciamo. Dunque la cosiddetta realtà esterna esiste e il problema consiste rispetto a quali condizioni e con quali risultati noi tentiamo di riprodurla.

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Ma allora cos’è questa benedetta realtà? È il prodotto fantasmatico della nostra mente, il quale assomiglia molto a un sogno, in effetti mantenendo le sue caratteristiche ipnotiche oniriche. È per questo che a volte non vediamo quello che c’è, oppure vediamo quello che non c’è (appunto come in un sogno). Per fare questo non occorre essere completamente pazzi, basta essere nevrotici (ma lo siamo tutti). In ogni caso non è completamente un sogno, diciamo che avviene in uno stato di dormiveglia più o meno forte, a seconda del nostro livello di attenzione. Detto questo sembrerebbe che stiamo sposando una concezione del tutto pessimistica, tale per cui la nostra mente, del tutto illusoriamente, elabora in modo artificiale e soprattutto arbitrario, una specie di sipario totalmente fuorviante che si sovrappone alla vera realtà ( che lo ripetiamo, deve pur esistere, altrimenti questo stesso sipario, non sarebbe altro che sogno…). Se fosse così non so se l’umanità sarebbe sopravvissuta e soprattutto, non si sarebbe mai evoluta nei suoi procedimenti conoscitivi. Tutto questo per dire che cosa? Per dire che in realtà, nel fatidico processo che porta dall’oggetto esterno al soggetto interno, non è vero che la cosa viene completamente travisata e per così dire, annullata da una rappresentazione del tutto fantastica che la sostituisce. O meglio, questo è vero, ma solo in parte. Infatti il problema lo possiamo vedere anche come rapporto di causa (la realtà esterna) e di effetto( i risultati della nostra percezione): spesso i due poli sono completamente diversi, a volte si mantiene qualcosa, in altre occasioni sono molto simili. Nella nostra percezione resta qualcosa di indiziario e rappresentativo della realtà che non sia completamente inventato. È come al solito una dialettica reciproca di riconoscimento e fraintendimento, la cui matassa può essere in parte dipanata da un pensiero deduttivo collettivo, ma soprattutto da un processo di verificazione. La visione costituita dal nostro apparato percettivo mantiene pur sempre qualcosa di quell’oggetto cui si riferisce, a vario titolo: ci offre cioè degli indizi, i quali a loro volta, possono aprirsi a un ulteriore processo conoscitivo, che potenzialmente ci avvicina sempre di più alla realtà (anche se è troppo facile pensare che la totale trasparenza, forse non ci sarà mai). Insomma questo sipario non è solo una cortina che nasconde, ma una coperta che mantiene qualcosa di quello su cui poggia: come quando entrando in una vecchia casa, le coperte sopra i mobili ci mostrano in parte le forme e i collegamenti spaziali. Nel caso del suono la problematicità della cosa in se raggiunge probabilmente i suoi vertici: la causa che provoca l’urto (il violino) non è l’onda d’urto, e questo a sua volta non è il suono finale. Tuttavia animali che vedono o sentono in modo assai amplificato e sminuito non vivono in un mondo fantastico, ma, per quanto possa sembrare incredibile, in dimensioni tutte reali ma con diversi gradi di verità e di concretezza. Lo stesso accadde quando ci furono le scoperte del microscopio e del cannocchiale. Le apparenze sono tutte vere anche se con diversi livelli e “sostanza” di verità.

Soprattutto di fronte a una porta rettangolare bianca non è che le persone la vedono rotonda e nera: la vedranno rettangolare , magari un po più piccola o più grande, un po o meno bianca.
Lo stesso accade ai geni: vedono e vivono adesso una realtà, che sembra fantastica (in realtà è più avanzata) ma che in un futuro, grazie a loro, apparterrà a tutta l’umanità. Pertanto il problema della cosa in se non è come chiedere a un muto che cos’è o a un cieco che cosa vede. La nostra visione del mondo sarà sempre in parte fantastica e in parte reale: il problema è diminuire la prima e aumentare la seconda (tranne nel caso dell’arte) Tuttavia è altrettanto chiaro che riusciamo a farle parlare o a darle una immagine, sempre secondo le possibilità di un certo momento storico, che sarà sempre l’equivalente del nostro modo di rappresentarci le cose. Anche quando pensiamo di essere arrivati al top potrebbe arrivare un marziano e farci fare una brutta figura (o più realisticamente un nuovo genio).

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Pertanto la salvezza (provvisoria) sta nella visione, che sia pure parziale e deformata, ci da una forma di esperienza e conoscenza condivisa e comunque abbastanza aderente e “verosimile” alla realtà. Soprattutto è in grado in grado di sviluppare una lunga catena di processi evolutivi che oggi sono approdati alla scienza e alla tecnica. Il culmine di questo processo è la verifica dell’esperimento, l’unico metodo che ci permette di andare oltre la semplice visione rappresentativa e di confrontarla veramente con tutte le altre componenti della realtà. Questo accade quando riusciamo a visualizzare e/o concettualizzare questi elementi, metterli a confronto all’interno di un processo, in cui i problemi conoscitivi che emergono, si possono risolvere su di un piano di effettive concretizzazioni e realizzazioni (verifiche sperimentali) Non importa se questo risultato pratico “parziale” si offre ad altri ulteriori ipotesi problematiche. Ogni risultato pratico non è solo strumentale, è anche teorico, sia pure in misura minore, e quindi comunque ci avvicina alla cosa in se. Per lo stesso motivo il percorso delle ulteriori ipotesi prosegue questo cammino: il percorso verso la cosa in se si presenta come una scala evolutiva percorribile e non come un abisso invalicabile.

Abbiamo capito che c’è un gap, uno iato tra la nostra rappresentazione del mondo e il mondo: è questa fantomatica cesura che stabilisce una separazione apparentemente irreversibile e incolmabile. Ma come già detto le cose forse non sono così gravi per le rappresentazioni esteriori mondane, considerate a torto in modo così drammatico e schizofrenico: il nostro mondo fantastico da una parte, la realtà fantomatica dall’altra. Lo sono invece potenzialmente (e purtroppo spesso concretamente) per la nostra interiorità in se stessa e nel confronto con le altre. Questo accadeva ai primitivi, oggi ai bambini e ai pazzi, per noi c’è una via di mezzo che si offre a ulteriori avanzamenti. Per Kant la rappresentazione è il fenomeno e la vera realtà (inconoscibile) è la cosa in se. Ma qui subito si nota una specie di paralogismo che funziona malamente come un paradosso e un auto-goal. La cosa in se è la realtà che prescinde da noi, ma noi ovviamente non possiamo prescindere ne dalla realtà ne da noi stessi ; e non possiamo nemmeno, se non masochisticamente e pregiudizialmente, ritenere che questa cesura sia incolmabile. Se fosse così ci comporteremmo come quelli che rinunciano a saltare l’asticella in partenza: ovviamente questo ostacolo resterà insuperabile finché tale lo considereremo. Così accadde anche per le colonne d’Ercole fino a quando Colombo non le valicò. Sul fatto che se stava a casa, forse era meglio, questo è un altro paio di maniche. La estremizzazione della cosa in se presuppone una separazione assoluta insuperabile, mentre la realtà per noi è sempre gioco forza, il frutto del nostro incontro-scontro con essa: ossia un processo che non può escludere a priori un continuo avvicinamento e un progresso della conoscenza (come poi è avvenuto). Pertanto assolutizzare la cosa in se come una lontananza irraggiungibile è come se il soggetto si castrasse o paralizzasse da solo. Nello stesso tempo è bene che mantenga la modestia dei limiti, appunto perché ci possiamo avvicinare molto alla conoscenza della realtà, ma il sapere assoluto ci sarà sempre precluso. Quello che non possiamo conoscere è la reale portata di questo gap: se è enorme viviamo e vivremo sempre in uno scenario fantastico, se invece si è molto ristretto, viviamo più aderenti alla realtà. Sicuramente per gli uomini primitivi questo divario era enorme, fino al punto di ipotizzare che ai quei tempi, veramente ricoprivano la realtà con una specie di film fantastico auto-prodotto. Ma adesso? Adesso la scienza in virtù di tutti i suoi procedimenti , in primis quello di verificazione, raggiunge dei risultati pratici straordinari: questi non possono non essere in qualche misura anche teoretici, cioè aprire degli spiragli su com’è fatto veramente il mondo.
Pertanto noi possiamo anche stabilire gli elementi di questo gap, ma la scienza può colmarli quasi tutti e in gran parte, anche se paradossalmente, non è in grado di stabilire “fino che punto”. Questo è il grande pardosso.
Pensiamo alla rifrazione diffrazione dei nostri sensi; me è veramente così forte e micidiale? Fino al punto di scambiare una porta tonda per una porta quadra? ( si ma solo se siamo schizofrenici…) Al massimo la vediamo un po più grande o un po più piccola, più o meno colorata. Il vero problema consiste nel fatto che vediamo sempre una superficie iniziale che nasconde le altre. Pensiamo alla pelle: è fatta di tre strati che si sovrappongono. Ogni volta che ci fermiamo creiamo l’effetto di un sipario coprente; ma siamo sempre dentro alla realtà, sia pure in modo parziale e mistificato. In tutti i casi non vedremo mai la cosa in se, cioè i tre stati tutti assieme, ma al massimo sovrapposti graficamente o in fotografia. Non vedremmo cioè la vera cosa in se , ma è come se la vedessimo, se la conoscenza teorica e pratica della pelle fosse comunque molto elevata. L’idea che comunque vedremmo quelli strati deformati con gravi conseguenze di tipo fantasmatico è assurda. Ricorda quello sceicco super voyer e super sadico, che dopo aver spogliato la sua bella baiadera, facendole levare uno a uno i famosi sette veli, alla fine la fece addirittura spellare… Ognuno di quelli strati, compreso quello sanguinolento, era pur sempre lei. In tutti i casi ciò che toglie la testa al toro è il principio di verificazione: se ha successo supera le difficoltà come un carro armato che salta un fosso.

Potremmo fare un esempio ancora più forte: la visione della pelle strato, poi come insieme di cellule, infine come aggregato di atomi. Sembrerebbero visioni completamente diverse e contrastanti, e in un certo senso lo sono; ma sono anche la stessa identica cosa, vista con prospettive e modalità diverse.
Non sono ogni volta la contestazione fantastica di quelli precedenti (a loro volta farlocche) ma i diversi volti simultanei della realtà. Non li possiamo cogliere come cosa in se totalmente unificati se non facendo nel nostro cervello uno strano gioco di astrazione e simulazione.

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A questo punto però si impone un gran colpo di scena. Sembrerebbe che, molto ingenuamente e persino colpevolmente, abbiano fornito una immagine della scienza quanto mai positiva e ottimista.
Abbiamo fornito questo primo approccio solo per contestare un mito esagerato e paralizzante della cosa in se; adesso però correggiamo il tiro e riconosciamo che una certa scienza ci sta portando alla rovina sia materiale (inquinamento natura) che morale (ingiustizia sociale e assurdità della nostra vita, sempre meno libera e artificiale). Questo sta accadendo a un tale livello che forse ogni eventuale correzione di rotta potrebbe essere ormai troppo tardi. Ma questo è il punto, diamo a Cesare quello che è di Cesare. Ossia questo disastro ormai incombente, non è dovuto a un eccesso di ignoranza per colpa della cosa in se, ma a un eccesso di malo-sapere e al disastro etico che lo presuppone e lo realizza fino alle estreme conseguenze. La scienza ha sviluppato un metodo (analitico del calcolo strumentale) potentissimo da un punto di vista pratico e distruttivo, ma improprio e scorretto da un punto di vista conoscitivo: cioè applicandosi su un solo versante della conoscenza, quello analitico tralasciando quello olistico sintetico. In questo modo sotto la veste di una falsa neutralità, non si è occupata di tutte le altre implicazioni contestuali critiche e valoriali. Ha pensato solo al successo materiale dei suoi esperimenti per soddisfare gli interessi economici e politici dei suoi padroni. Non ha pensato agli impatti negativi devastanti sulla natura e sulla società. Conseguentemente la vera cosa in se apparentemente irraggiungibile, non è quella della natura-materia, ma quella del nostro inconscio. Quando Leonardo scriveva in codice non lo faceva perché pensava di scrivere delle fregnacce, ma perché sapeva molto semplicemente, che certe verità erano troppo pericolose per delle menti malvagie. La volontà di potenza delle classi dirigenti è sempre stata diabolica, ma solo quando siamo passati dalla spada alla bomba atomica, il disastro totale è diventato incombente. Altro che dimenticanza dell’essere o abbandono totale e definitivo della stessa scienza, come se questa fosse l’unica possibilità di salvezza! Solo un Dio ci potrà salvare, se non la stessa scienza; ma solo a patto redimersi e mutare del tutto, gli aspetti metodologici e pseudo etici che ci hanno portato a questo disastro.
Oggi possiamo parlare male della scienza e della tecnica quanto ci pare, ma il vero problema non è il suo allontanamento dall’essere o una scarsa conoscenza a causa del mistero della cosa in se, ma al contrario da un “eccesso di conoscenza” (anche se la presunta onnipotenza della scienza resta illusoria). La scienza sta distruggendo il mondo esteriore (e interiore, questo è il vero nichilismo che resta anomico) non perché ha ricoperto il mondo di una magica coperta fantastica, ma perché lo ha svelato per così dire ai raggi x nella sua totale nudità, dominandolo e alla fine distruggendolo. Per questo forse Platone fece partire la conoscenza dall’idea (la forma visibile delle cose) ma nello stesso tempo raccomandando di sottoporle al vaglio dell’idea suprema del Bene. Questa idea non era solo la matematica (il sapere che dominando anticipa, mettendo il mondo nelle mani malefiche dell’uomo). Il Bene per fortuna era molte altre cose. Era ovviamente il contrario esatto del male, cioè del concetto greco di Ubris, ciò che distrugge ogni limite andando oltre ogni limite. Questo è un concetto decisivo, perché esprimendosi sostanzialmente nella volontà di potenza (che volendo infinitamente se stessa non riconosce e travolge ogni limite) si ricollega all’inconscio, cioè a una potenza sotterranea indomabile. Questa nel duplice aspetto della volontà malvagia dei dirigenti e della assuefazione supina dei subalterni, ci porterà probabilmente e inesorabilmente alla rovina finale. Altro che tradimento dell’essere e mancanza di poesia! La volontà di potenza (sadica) dei dirigenti , la sottomissione (masochista) delle masse, è ciò che ha sempre decretato l’ambivalenza diabolica della storia; ma ora da due secoli a questa parte (con la rivoluzione industriale) l’eccesso di mala-conoscenza ( e non la ignoranza della cosa in se) affidata nelle mani di una classe dirigente folle e malvagia, ci sta portando al disastro. Forse è già troppo tardi per i guasti enormi che sono stati fatti e perché la macchina in movimento ormai non la ferma più nessuno. Questi sono i veri colpevoli concreti della storia e non la super metafisica dimenticanza dell’essere. Tra l’altro mettere tutto nelle mani misteriose dell’essere (che ha deciso della sua stessa dimenticanza, della nostra dimenticanza) è anche un bel modo per auto-assolversi aspettando gli avvenimenti. Infine il Bene era anche e soprattutto l’idea dell’Uno: l’identità unitaria dell’universo attraverso le sotto-identità unitarie che lo compongono. In altre parole stiamo parlando della totalità organica dell’universo, a sua volta sintesi di tutte le totalità organiche più piccole che lo compongono. Ecco perché Aristotele disse che il compito dell’uomo consisteva nel portare a perfezione l’essere (la natura): cioè mantenendo e completando questo insieme di totalità organiche, quella suprema e le sue componenti. Quello che c’è di assurdo e impossibile in questo concetto, sta nel fatto che l’uomo comunque non poteva solo rispettare la natura, prescindendo dai suoi fondamentali interessi “antropocentrici” di sopravvivenza. Se così facesse, come forse vorrebbe Heidegger, si limiterebbe a contemplare la natura lasciandola vergine. Viceversa non poteva non modificarla secondo un suo progetto: è sul valore intrinseco di questo progetto “originario” che si è giocato, e tutt’ora si gioca tutto. Era fin dall’inizio completamente sbagliato conoscitivamente (analitico, calcolante strumentale) e malvagio nei fini: ossia perseguiva il trionfo della classe dirigente che lo applicava, non solo distruggendo la natura, anche a scapito del resto dell’umanità a lei soggetta. Questo progetto sta distruggendo il mondo a causa degli errori metodologici e strutturali della scienza, che però rovesciandosi come un guanto, potrebbero in extremis, sovvertire anche quelle stesse impostazioni metodologiche e pseudo-valoriali sbagliate. Potrebbe trovare finalmente il giusto compromesso tra salvezza della natura e il progresso dell’umanità (sempre che non sia troppo tardi). Quello che chiamiamo coscienza è in parte il fraintendimento relativo sulla realtà; ma questo relativismo preziosamente ambiguo ( sarà sempre un misto di illusione e realtà) accade solo per gli oggetti e gli enti disposti sulla scacchiera del mondo. Il vero fraintendimento grave e drammatico sta potenzialmente, sul modo che la coscienza (dominata dall’inconscio) ha di interpretare se stessa e il mondo. Questa è veramente la cosa in se insuperabile. Questo è veramente l’aspetto più terribile della condizione umana: questo consiste nel dare un sapere enorme nelle mani di scienziati pazzi, come furono a suo tempo, quelli nazisti. Questi non si erano dimenticati dell’essere, si erano semplicemente dimenticati di essere umani.

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