RITO-MITO
Il mito nella sua definizione più semplice, è costituito da un racconto (un insieme di racconti), attraverso il quale i popoli primitivi cercano prima di tutto di interpretare e rendere conto delle origini di se stessi e del mondo, in seguito sviluppano tutto questo come la loro enciclopedia dei saperi in base a tutti i fenomeni più importanti della loro vita naturale e sociale.
Ricercando le vere origini del mito ci si trova subito di fronte al primo dei molti e grandi tormentoni interpretativi di questo affascinante argomento. Ingenuamente si potrebbe pensare che nasca subito il mito in quanto tale. All’inizio era il racconto. In realtà non è così: all’inizio era l’azione (il rito) e successivamente troviamo il racconto dell’azione. Sembrerebbe una questione pleonastica e di poco conto e invece ha una funzione enorme. Sicuramente è ovvio che mito e rito si sono veicolati e sviluppati a vicenda. Tuttavia poiché il mito è una espressione orale con una capacità linguistica e narrativa molto complessa, già presente nelle sue fasi iniziali, non sembrerebbe, in quanto tale, esprimere la primissima funzione della cultura umana. È un qualche cosa di già evoluto e successivo. Viceversa il rito, i primissimi riti, sembrerebbero rinviare a una forma preverbale come possono essere dei gesti ripetuti e uniti a espressioni verbali semplicissime e primitive. Quello che è accaduto ai bambini si è verificato anche nell’infanzia dell’umanità: si esprimevano con dei gesti e con dei suoni appena articolati. Sappiamo che il linguaggio e la fase preverbale precedono quella verbale vera e propria. Inoltre anche il rito ha avuto una serie di fasi prima di approdare al mito. Infatti il rito è un insieme di azioni e comportamenti regolamentati in una forma fissa stabilita una volta per sempre: in questo senso si definisce cerimonia o liturgia. Tuttavia il rito evidentemente ha una fase iniziale in cui non presentava ancora una forma fissa. Il rito insomma doveva imparare a essere tale. Uno dei primi riti (che costituiscono anche la nascita del ballo rituale, molto probabilmente prima ancora del disegno e del racconto) può essere stato la imitazione delle danze di corteggiamento di certi uccelli. Qui si vedono, la nascita del linguaggio inteso come espressione di suoni semplicissimi coordinati con dei gesti e soprattutto per imitazione onomatopeica dei rumori del contesto (animali, natura ecc). Inoltre vediamo anche la origine del rito-mito in direzione di due funzioni fondamentali: l’accoppiamento e la prima identificazione simbolica (e totemica) degli animali divinizzati, individuati come progenitori della stessa tribù. Insomma il rito pur essendo soprattutto preverbale, ha già in se quasi tutti gli elementi (sequenze, simboli,partecipazione comunitaria, adesione emotiva) che poi diventeranno, collegati e reinterpretati tra loro, la fonte di espressione linguistica nel racconto mitico vero e proprio.
Noi moderni pensiamo che la teoria preceda l’azione in quanto siamo abituati da una lunga consuetudine che ha alle spalle due mila anni di storia della filosofia e della scienza; ma come i comportamenti dei bambini ( fino a tre anni) non sono certo preceduti da una teoria, così lo sono quelli dei primitivi nella primissima fase della loro “umanizzazione”. All’inizio dunque c’era l’azione e quindi il rito. Questo possiede anche un incredibile valore rivoluzionario se pensiamo che la primissima differenziazione dall’animale istintivo in animale simbolico è avvenuto nel rito. Questa è stata la più grande rivoluzione della storia della umanità oltre che la sua origine assoluta come istanza produttrice di cultura. Ora questa danza è stata iniziata per imitazione animale da un certo numero di individui (i primi sciamani?) , solo successivamente per imitazione sociale da tutti gli altri. Questo è un paradigma arcaico che incredibilmente si è riconfermato nella storia fino ai giorni nostri. Una moda (rito di conformismo di massa) non è tale all’inizio; anzi ci sono stati degli individui (oggi questi strani sciamani li chiamiamo avanguardie) che hanno iniziato pericolosamente azioni non condivise e persino condannante come bizzarre e sconvenienti. In effetti la moda al suo inizio, intesa come novità, viene considerata non conforme ai comportamenti abitudinari o conformistici precedenti. Solo quando questo ha fatto breccia nell‘immaginario collettivo è diventata, man mano, una nuova consuetudine, assumendo finalmente una caratteristica liturgica definitiva. Come dire: all’inizio era condannata e seguita da pochi e in seguito bisognava quasi condividerla per forza, pur di restare nella dimensione identitaria del gruppo. Chi praticava i tatuaggi fino a pochi anni fa non veniva visto di buon occhio, oggi è elemento di merito e competizione. L’azione innovativa come rito ha sempre un carattere rivoluzionario improvviso ed estemporaneo, a volte addirittura casuale. In tutti i casi il primo rito ha dato il via alla prima e più grande rivoluzione culturale della storia. Essa ha spezzato il meccanismo puramente istintivo del vecchio animale biologico inventando la cultura del nuovo animale simbolico. E’ solo nella fase intermedia del rito e soprattutto in quella finale che assume conformazione liturgica , cioè fissata secondo regole precise immodificabili: fase che ha preceduto la invenzione successiva del mito vero e proprio, cioè la sua codificazione e formalizzazione orale definitiva. E’ nel corso del mito che il rito ha raggiunto la sua formulazione risolutiva sacrale e intoccabile, come poi assumerà anche nella magia vera e propria. Anche nella magia le formule verbali e le azioni devono essere conservate e ripetute assolutamente uguali affinché il rito magico abbia successo. Curiosamente questa ripetizione ossessiva dell’identico è presente anche nella scienza, la quale si premunisce, attraverso dei protocolli preventivi d’intesa, che se un esperimento ha successo (fino a prova contraria) deve ripetere esattamente le stesse formule teoriche e procedimenti pratici e che lo hanno provocato.
ISTINTO E ANIMALE SIMBOLICO.
Il primo rito ha rappresentato il passaggio dallo stato di animale istintivo ad animale simbolico. Per la prima volta appare al mondo un nuovo essere che produce cultura. L’istinto è prima di tutto un processo comportamentale anche molto complesso (apparentemente geniale) nel corso del quale gli animali, sviluppando delle azioni consequenziali, raggiungono finalisticamente e utilitaristicamente, un determinato scopo necessario alla soddisfazione dei loro bisogni biologici e sociali. Pensiamo per esempio al modo e al mondo straordinariamente complesso, attraverso cui le formiche organizzano la loro società gerarchica. La stessa minuscola porzione del loro cervello, sembrerebbe escludere del tutto autocoscienza e apprendimento, ma determinare solo comportamenti automatici e per così dire innati. Pertanto nella vecchia interpretazione questa strategia si impone come una sorta di memoria programmata fissata una volta per tutte nelle sequenze del Dna della specie. Questo significa che è ereditaria, stereotipata: pertanto risultando automatica esclude, all’interno di una dimensione meccanicista, una vera intelligenza creativa e un vero apprendimento di tipo evolutivo. In poche parole sarebbe un cliché, un copione che si ripete sempre e che sembrerebbe escludere qualsiasi iniziativa individuale. Del resto i comportamentisti sarebbero riusciti a dimostrare che tale complessità è solo apparente: l’animale ha memorizzato e assemblato meccanicamente le sequenze una alla volta, in base un puntuale procedimento di premio castigo offerto dalla natura stessa. Infatti l’istinto scatta solo se il contesto lancia chiari stimoli in relazione alla finalità da raggiungere o da evitare. Resterebbe il problema di come tutto questo sia iniziato. Una certa azione casuale ha comportato un successo. Questo è stato prima memorizzato dal singolo e poi imitato dal gruppo. In seguito è stato tramandato alla prole e nel tempo lunghissimo sarebbe diventato effettivamente patrimonio dell’istinto. Il fatto è che i comportamentisti vorrebbero ricondurre questo tipo di apprendimento meccanicistico e deterministico anche all’uomo; mentre noi sappiamo per certo che la dimensione critica ed etica dell’uomo va ben al di la di qualsiasi premio o castigo o qualsivoglia predisposizione contestuale. In realtà è molto difficile escludere una qualsiasi forma di apprendimento o intelligenza creativa anche tra gli animali. E’ arduo rassegnarsi al fatto che le formiche avrebbero creato la catena di montaggio e la gerarchia del potere senza nessuna forma di vera intelligenza. In effetti è stato recentemente scoperto che per esempio formiche e api, con un patrimonio di solo un milione di neuroni nel loro cervello (noi ne abbiamo miliardi), riescono appunto a svolgere operazioni molto complicate; non solo ma avendo una vera e propria forma di cooperazione, uniscono continuamente le loro informazioni in modo sintetico, programmatico e strategico. Si potrebbe dire: tanti cervelli fanno un cervellone; ma, in questo caso, tanti mini cervelli fanno un cervellone…Possiamo citare un altro fatto recentemente accaduto a una tribù di macachi in Indonesia. Infatti queste scimmie avrebbero inventato non una piccola variante, ma qualcosa che fu decisivo anche per il corso della nostra stessa evoluzione, ossia niente meno che il baratto. Si tratta evidentemente di una novità assoluta e geniale che contraddice in partenza la teoria della fissità immutabile dell’istinto. Queste scimmie rubano ai turisti vari oggetti in cambio dei quali si fanno dare del cibo in proporzione alla importanza del furto. Così in un colpo solo, tramite il meccanicismo utilitarista, ma nello stesso tempo andando oltre, hanno inventato e utilizzato la relazione, la decodificazione del linguaggio preverbale, la selezione dei simboli, la quantità e la qualità. Non è possibile che pur dentro alla rigidità del comportamentismo non ci si anche una qualche forma di intelligenza creativa. Una cosa è sicura: l’animale grazie all’istinto sa sempre quello che deve fare anche se non è sempre all’altezza della situazione. Viceversa per l’uomo la perdita dell’istinto e l’assunzione della intelligenza simbolica hanno comportato l’inizio di una avventura sconvolgente e straordinaria, ma anche un prezzo molto alto da pagare. Ci piacerebbe dire che questo prezzo riguarderebbe soprattutto gli inizi, come se ogni mostruosità fosse solo appannaggio dei primitivi, come se appartenesse solo al più lontano passato e non al nostro tempo più recente. In realtà non sappiamo ancora se ne usciremo fuori dai guai che ci ha creato questa straordinaria intelligenza all’inizio simbolica e poi calcolante… (vedi distruzione della natura, rincorsa degli armamenti, esplosione demografica ecc). Infatti l’abbandono dell’istinto ha provocato la perdita di ogni sicurezza automatica, costringendolo nello stesso tempo ad acquisire una formidabile flessibilità di adattamento. Questo gli ha permesso di sopravvivere alla variazione di tutte le condizioni contestuali e climatiche dei luoghi in cui si è trovato a vivere. Come sappiamo questo è accaduto nel corso del suo lunghissimo itinerario di nomade durante la caccia e raccolta (tutto il paleolitico e primo neolitico). In questo lunghissimo pellegrinaggio ha popolato il mondo, adattandosi a tutte le condizioni climatiche, proprio perché non aveva più un istinto fisso predeterminato a un preciso contesto. Tuttavia Il prezzo di questa variabilità e flessibilità, come anche il dramma del dominio segreto dell’inconscio, è consistito nell’accendersi di un eterno disagio esistenziale (ancora oggi) tale per cui non sa chi è veramente (animale, angelo, demone?). La sua identità è un problema e una scommessa nello stesso tempo. Soprattutto mantiene un senso di inquietudine, di insofferenza per il mancato compimento di una identità stabile e completa (senza rendersi conto che proprio questa incompletezza è il bello della sua vita). A questo si aggiunge il sentimento di desolata inferiorità di fronte alla grandezza imprevedibile e pericolosa dell’universo, il terrore della morte, il senso di colpa nel presupporre di meritarsi in qualche modo ( ho forse offeso gli dei?) un destino così doloroso e ingiusto. Questa duplice insopportabile tensione trasportata nelle religioni monoteiste, diventerà il dramma della improbabile e ardua ascesa verso una forma di perfezione addirittura divina. Perdendo l’istinto l’uomo ha altresì raggiunto ed espresso una emotività fortissima fusa e acuita dallo stesso simbolismo magico. Quando veniva la notte gli animali semplicemente si apprestano a dormire: ma molte tribù piangevano collettivamente di fronte allo sparire della luce, come se questo fosse presagio di morte ; così come all’alba rinascevano sempre a nuova vita come di fronte a uno straordinario parto collettivo.
Il simbolismo ha comportato una strana consapevolezza o rappresentazione della morte, tale per cui un tipico modo per garantire la eternità dei parenti defunti consisteva… nel mangiarli. Infatti simbolicamente restavano dentro il corpo del parente cannibale che così ne assorbiva e preservava l’essenza. Nessun animale resterebbe sconvolto osservando il sesso maschile o femminile dei suoi simili, se non forse dal punto di vista del sorgere e acuirsi del suo desiderio. Solo la nostra specie ne ha desunto simbolicamente un principio di castrazione differente e reciproca tra maschi e femmine, aspetto che è stato (forse sarà per sempre) uno dei fattori culturali determinanti la nostra civiltà: basta pensare alla formazione della identità sessuale. Pertanto se il simbolismo, con la sua totale apertura fantastica e immaginifica, ha fatto successivamente da battistrada alle infinite potenzialità della intelligenza, nello stesso tempo si è prestato a molti terribili trabocchetti e fraintendimenti del pensiero magico. Ne ricordiamo uno fra i tanti ancora tristemente in voga fino a pochi decenni fa: come quando la donna mestruata era considerata impura a causa del suo sangue superstiziosamente infetto.
Gli animali maschi possono uccidere i cuccioli e la loro madre, ma non si sognerebbero mai di distruggerle i genitali della femmina come fa l’uomo con la infibulazione; mangiano i cadaveri per necessità alimentare e non come fanno (per via simbolica) certi popoli primitivi onde procurarsi eternità e divinizzazione.
Tutto questo va in direzione del più terribile retaggio del mito che comunque fa parte della condizione umana e dunque la subiamo ancora oggi. Gli uomini producono i loro simboli, ma poi ne sono completamente sottomessi come se fossero delle potenze esterne a cui non solo obbediscono incondizionatamente, ma che nemmeno capiscono. Essi stessi producono quello stesso mistero che li schiaccia e li condanna. Per gli animali obbedire all’istinto è comunque una forma di razionalità; ma per noi obbedire ai nostri simboli ( al nostro inconscio e ai suoi archetipi) è spesso il segno di un mondo rovesciato e completamente irrazionale. Gli animali cercano ed esibiscono la loro animalità del tutto spontaneamente; ma la nostra obbedienza cieca e spontanea ai simboli, la incapacità di produrre e garantire un minimo senso critico e autocritico, restando collegati con la realtà, significa proprio venir completamente meno alla nostra stessa umanità. Ed è esattamente quello che hanno fatto ( e certi popoli continuano a fare) sotto le recenti dittature. In realtà tutto questo è accaduto proprio nel tentativo, fatto per la prima volta dal pensiero animistico, di rovesciare il negativo in positivo non con le armi fattive della scienza (come per fortuna a volte riusciamo a fare) ma con quelle del pensiero magico e simbolico. E’ quello che faranno anche la religione e la filosofia avendo a disposizione solo delle componenti mentali ; il simbolo o il concetto. Per ovviare a tutto questo, ossia trasformare o camuffare il negativo in positivo per poter continuare ad adorare la natura, oltre alla sua tragica evidenza e apparenza, il pensiero mitico ha intrapreso molte strade con infinite varianti. Ne esiste una di terribile in India dove la setta degli Aghora per negare la presenza del negativo nel mondo, dato che tutto è buono e divino, allora si ciba di escrementi e di cadaveri. Se tu osservi i volti di queste persone non esprimono affatto santità, magari sui generis, ma una forma di demonismo e idiotismo terrificanti.
MITO-RACCONTO
Presso tutti i popoli primitivi, a parte quello greco in cui il mito ci offre subito uno spessore e una straordinaria profondità, i primi racconti si impostano su due funzioni espressive: quella narrativa, basata su una capacità affabulatoria, infine la predisposizione a sviluppare la particolare dimensione religiosa del proprio immaginario collettivo. Sarebbe troppo facile sostenere a posteriori e in separata sede che quella religiosa fosse di gran lunga la più importante, non solo perché religiosa in quanto tale, ma anche per la sua funzione di collante sociale. In realtà si veicolavano e supportavano a vicenda. Soprattutto i popoli primitivi per primi non li concepivano separati e li vivevano in una fusione totale. Pertanto sarebbe difficile dire se risulta più importante la seduzione emotiva del racconto o quella onirica sacrale del simbolo: entrambe sono completamente fuse insieme a motivo della stessa condivisione ipnotica. Sicuramente nella Bibbia ha prevalso la funzione religiosa su quella poetica; ma per quanto riguarda i poemi omerici ha prevalso quella poetica su quella religiosa. Questo ha avuto una funzione enorme per lo sviluppo della cultura greca (e conseguentemente la nostra) che ha sempre mantenuto un fondamentale e straordinario spirito di libera espressione non vincolata da dogmi religiosi o politici. Nello stesso tempo questo non è andato affatto a detrimento per la profondità di un pensiero che si è diretto in tutte le direzioni, sviluppando un pensiero mitologico che ha saputo andare oltre se stesso in direzione della filosofia. In ogni caso, come fanno i nostri media ancora oggi, il racconto in quanto tale doveva più avvincere che convincere, entrare in presa diretta col pubblico per imprimere una trama simbolica condivisa. In questo senso il racconto a volte non significa altro che se stesso. Cercare o addirittura inventare a tutti i costi una dietrologia che in realtà non esiste, implica solo un fraintendimento o addirittura una falsificazione da parte della nostra sofisticata e insofferente mentalità moderna. In questo senso il mito cerca solo la piacevolezza di raccontare fine a se stessa: i suoi giochi di prestigio, i colpi di scena, gli stessi intervalli incomprensibili che spezzano il racconto sul più bello, hanno solo il compito di attirare e soddisfare amabilmente l’attenzione del suo pubblico. E’ come se noi ricercassimo, dietro a un giallo moderno molto appassionante e intrigante, un senso nascosto e ulteriore rispetto alla trama ; il quale però non è detto che ci sia. Pertanto nel mito la caccia al tesoro del senso potrebbe riservare (e spesso lo ha fatto) grandi profondità rivelatrici o mostrarsi semplicemente un gioco. Questa però è solo una componente del mito che, come abbiamo capito, presenta una identità assai complessa e variegata: infatti l’altra funzione molto importante era proprio quella per così dire esistenziale e religiosa in funzione animistica e totemica. Vi era la rievocazione di un dramma sacro (l’origine del mondo, lo scontro tra potenze negative e positive, la comunicazione col mondo dei morti) alla quale tutti partecipavano, non più nella simulazione consapevole di un racconto, ma come se questa fosse effettivamente vera e reale.
ANIMISMO-MAGIA
Proviamo a pensare un animale che per la prima volta (smettendo quindi di essere un animale biologico istintivo, diventando “animale simbolico”) scopra di produrre simboli e attraverso essi di rappresentarsi e interpretare il mondo. In effetti non sa nulla, nulla di nulla, né di se stesso dentro né fuori nel mondo. Eppure qualcosa sa, nel senso che lo prova ed esperimenta direttamente: vale a dire tutto il suo vissuto, o meglio le componenti articolate dei suoi vissuti. Questa funzione interpretativa e comunicativa è stata esemplificata come dialogo del “TU”. Il primitivo si rivolge a tutto ciò che esiste come se dicesse: tu sei come me. Tu provi e condividi con me la stessa dimensione di emozioni, dolore, piacere, volontà, progetti, amore, odio ecc : insomma tutto quello che passa attraverso il suo corpo, il suo cuore, la sua mente è la stessa dimensione vitale di tutto ciò che esiste. Tutto questo è vita o anima o spirito, insomma soffio vitale (questo è il significato della parola anima), ed è anche sacro come tutto quello che esiste in quanto tutto è pervaso da questo flusso dinamico vitale. Allora cosa fa questo povero essere che non sa nulla tranne quello che prova direttamente sul suo corpo e nella sua anima? Semplicemente proietta fuori di se tutto quello che prova dentro a se stesso: quindi ritiene che tutto sia vivente e si comporti nella sua stessa identica maniera; ma c’è di più ( e questo è anche il fondamento della magia) ritiene che persino i suoi pensieri e i simboli stessi siano viventi, dotati quindi a loro volta di una forza, di una volontà e di un destino. Paradossalmente questo lo aveva detto anche Hegel in chiave laica, moderna e sociologica, quando aveva spiegato che tutto quello che la nostra mente produce, una volta partorito, cammina con le proprie gambe e ha un suo percorso che non dipende più da noi.
Uno dei momenti più poetici e straordinari dell’animismo consiste nello considerare lo stesso silenzio come vivente e pieno di significati, aspetto comunque confermato in pieno dalla comunicazione non verbale moderna, in cui il silenzio non annulla la espressione, anzi la esalta diversificandola (lo stesso fa la pausa nella musica). E’ veramente curioso come ciò che filosoficamente dovrebbe essere vuoto e rappresentare il nulla, finisca invece per produrre molteplicità.
L’animismo è stato la funzione mentale e conseguentemente l’archetipo più universale per secoli. La stessa filosofia greca nonostante tutta la sua demitizzazione e secolarizzazione rispetto alla religiosità popolare, rimase fondamentalmente “ilozoista-animista”, mantenendo questo residuo magico insopprimibile; non solo, questo riaffiorò ( col nome di panpsichismo) in modo importante nella filosofia rinascimentale (Marsilio Ficino ecc). Infine lo ritroviamo ancora oggi nel pensiero magico dei bambini fino a tre anni. Un altro grande esempio moderno lo recuperiamo nei cartoni animati degli animali umanizzati e parlanti.
Da tutto questo si comprende anche la nascita e il ruolo della magia. Tutto quello che esiste emana e partecipa di una misteriosa energia e potenzialità (mana) del tutto simile al vissuto e comportamento umano. Purtroppo questo mana, essendo in tutto e dappertutto, caratteristica del primo animismo (pre-animismo), si presenta in realtà anonimo e indifferenziato: difficile dire per esempio se l’uomo lo esercita o ne è posseduto, se ha una funzione attiva o passiva. Persino i simboli sviluppano questo potere, anzi lo esprimono al massimo livello, in pratica sostituendosi alle cose: es un ritratto di una persona o una sua ciocca di capelli è la persona stessa, la quale viene così contatta in relazione a condizionamenti magici positivi o negativi. A questo punto siamo in grado di capire la nascita e l’origine della magia. Tutti i simboli possono implicarsi in una catena polisemica ora stringente ed evidente, ora analogica oppure del tutto fantastica in base al potere dello sciamano. Sicuramente è una forma di potere particolarissima che si esercita a distanza andando oltre lo spazio e oltre il tempo. Infatti altre condizioni per sviluppare la magia sono il ruolo di una personalità magica come lo sciamano (dotato di poteri straordinari in quanto già in contatto con le potenze superiori, in questo caso o i defunti o gli animali totemici) e infine il rito che attiva opportunamente la catena dei simboli. Da questo punto di vista l’analisi delle funzioni logiche del simbolo (che faremo più tardi in separata sede) ci possono aiutare sia nella interpretazione dei sogni sia per comprendere le possibilità di collegamento tra i simboli nella magia vera e propria; ma senza dimenticare che lo stesso inconscio in definitiva non è altro che una forma di pensiero magico.
Infatti quando pensiamo alla magia non stiamo facendo solo riferimento a una tecnica, quanto alla intrinseca strutturazione dell’inconscio come pensiero magico. Questo è anche un modo di dire che l’inconscio ben difficilmente sparirà insieme alle sue necessità visionarie magiche religiose (es l’esigenza di vedere ed entrare in contatto con i morti, con gli angeli, i miracoli ecc).
Ora è proprio questo doppio collegamento che ci porta alla considerazione così negativa di entrambi. Anche perché la magia forse riusciremo a farla sparire come forma evidente e ordinaria all’interno dei nostri linguaggi, l’inconscio no.
TOTEMISMO
Il totem è un palo di legno su cui sono state scolpite un certo numero di forme di animali. Questo evidentemente per indicare in prima battuta l’aspetto più importante (che tanti invece vorrebbero secondario o addirittura pleonastico): la fusione completa con la natura intesa come totalità, in particolare la identificazione, in base a una vera e propria comunione con alcuni animali “strategici”, ossia considerati capostipiti e protettori della tribù. Sicuramente il totem aveva anche una fondamentale funzione di collante sociale interno e di aggregazione con gruppi parentali più lontani o addirittura etnicamente differenti. Anche questo ci riporta alla fusione e identificazione tra natura e società: i due piani erano assolutamente sovrapposti e compenetrati. Così quando sembra che parlino di natura stanno esprimendo e costruendo la loro società e viceversa. Tuttavia la sua funzione fondamentale resta magica e religiosa: la funzione di tabù (soprattutto incesto ma non solo) ricordandoci che le prime forme di religione sono state veramente legate all’Edipo, (parricidio e pasto totemico) e alla formazione del super io. In pratica prima uccidono il padre e poi se ne pentiranno per sempre, determinando la prima proibizione e senso di colpa universale. Col pasto totemico entra in ballo la comunione stessa col dio: questo permetteva il perdono e la sua resurrezione (rivivendo dentro al corpo di quelli che lo assimilavano) nonché identificazione col dio. Freud infatti riteneva che i maschi dell’orda primitiva, dominati e deprivati della loro sessualità, dal potere dispotico del vecchio capo branco, a un certo punto lo abbiano ucciso per soddisfare i loro bisogni. Ne seguì un’orgia collettiva, evidentemente con soddisfazione di tutti: dei giovani che potevano finalmente congiungersi con tutte le donne, delle donne che avevano a disposizione partners giovani e differenti, entrambi finalmente liberandosi di una opprimente dittatura sessuale e non sessuale. Tuttavia da ultimo subentrò un terribile senso di colpa per l’ esecrando omicidio. In base ai canoni animistici, mangiarlo era l’unico modo non solo per resuscitarlo, dentro al loro stesso corpo, ma per diventare come lui auto-divinizzandosi. Il fatto stesso che il corpo venisse smembrato non riguarda solo la reviviscenza regressione della carne cruda sanguinolenta, ma il fatto che così ognuno aveva il suo pezzetto di dio ( il miracolo della sua distribuzione per tutti). In questo modo dopo essersi liberati concretamente di una presenza scomoda, fondano la religione sull’adorazione di un dio che essi stessi hanno sacrificato e il cui sacrificio li libera dal senso di colpa. Infine iniziano la pratica della comunione iniziatica col corpo del dio che viene ingerito tanto misticamente quanto concretamente.
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Il Totem si trova praticamente dappertutto presso le popolazioni della caccia e raccolta (Africa, Asia, Americhe ecc). Sembrerebbe indicare palesemente una prima forma di religione (per quanto semplice e primitiva) con forte valenza magica e animistica, ma anche questo verrà contestato nel caso che, per religione vera e propria, si intendano solo i culti monoteisti. In effetti quanto detto per il mito in generale, vale anche per tutti gli argomenti di antropologia, e in particolare per la problematica dei totem. Stiamo facendo riferimento alla loro estrema variabilità: tante lingue primitive, tanti miti, tante tipologie di totem. Per forza di cose questa variabilità oggettiva deflagra in mille interpretazioni diverse e contrastanti. Il gran finale sembrerebbe essere quello per cui una vera teoria non esiste, il totem alla fine è qualcosa di residuale e direi ormai di scontato e sorpassato. In effetti non solo esistono tanti totem quanti sono le culture mitiche, ma già nel loro interno concettuale hanno funzioni diversificate. Infatti esistono totem collettivi (quasi la bandiera etnocentrica della tribù, aspetto che si riproporrà anche nei tatuaggi); individuali (lo sciamano “diventa” l’animale sacro di riferimento per acquistare tutta la sua abilità nella caccia); feticistici (cioè magico concreti, es. come far cadere la pioggia) e simbolici (interpretazione teorica-mitica del mondo). A questo punto invece di rivalutare la loro valenza magica e proto-religiosa, la si squalifica inseguendo mille altri rivoli interpretativi. A questo proposito dobbiamo fare alcuni precisazioni. Già Hegel, osservando e interpretando la storia della filosofia, si accorse della follia tale per cui ogni filosofo pretendeva di superare quello precedente, quasi svalutandolo e dimenticandolo. Era come se la storia, invece di indicare una evoluzione reale, diventasse la descrizione superficiale, a questo punto quasi inutile e noiosa, di differenze sorpassate e dimenticate. Per lui invece era la sintesi suprema di tutti gli aspetti positivi mantenuti e valorizzati nella particolare sintesi del filosofo (alla moda) del momento. Così è accaduto per la storia della antropologia e per la gigantomachia tra antropologi come se, nella incapacità di produrre una sintesi unificante, ogni passaggio cancellasse ridicolizzandolo quello precedente e l’ultimo, considerato provvisoriamente quello superiore, si lasciasse dietro solo delle macerie. Per noi invece, certo non tutto, ma molto di quello che è stato detto sui totem, va rivalutato e ricondotto positivamente, rispetto alla straordinaria complessità e totalità dei significati che lo riguardano e lo arricchiscono. Tutto questo senza dimenticare che il loro significato originario e prevalente resta magico e animistico.
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Ritornando a un discorso introduttivo e più generale, riscontriamo che attraverso il mito, i popoli primitivi, esprimevano la prima simbolizzazione della divinizzazione in quanto tale, nonché delle varie divinità diversificate in senso specifico e concreto. Ora questo è talmente vero che quando in Grecia ci fu il passaggio alla dimensione antropomorfa, molti dei mantennero il doppio riferimento anche al simbolismo totemico (es Minerva la civetta). Naturalmente a tutto questo presiedeva una accentuata mentalità magica e animistica. In un primo momento la fase detta preanimistica era caratterizzata dal “mana”, cioè da sentimento di divinizzazione che si espandeva come panteismo incontrollato e indifferenziato a tutto ciò che circondava la vita (e l’immaginario) del primitivo. Solo in seguito il totemismo fornì il primo panteon e la prima organizzazione gerarchica delle presenze divine considerate ancora sotto forma di animale. In questo modo da un mana preanimistico, indifferenziato e paradossalmente quasi anonimo (aveva tutti i nomi senza essere specificato da nessuno in particolare) si è passati alle prime forme di individualizzazione del divino.
Per fare questo i primitivi non ebbero bisogno di chissà quali operazioni mentali (che ancora non possedevano) ma semplicemente misero in atto, con immediatezza e spontaneità, la loro prima produzione e proiezione simbolica. Si trattava di qualcosa che evidentemente sentivano enorme già dentro di se. Questa specie di pulsione simbolica spontanea e irrefrenabile non era altro che l’adorazione infantile dei genitori, ancora proiettata su figure totemiche piuttosto che su quelle umane. Tuttavia non si trattava solo di una pressione emotiva fortissima legata ai primi affetti, c’era anche l‘effettivo riscontro della sconvolgente presenza di forze enormi di ordine naturale. Pertanto questa operazione si basava su un doppio spostamento e proiezione: quella dei propri genitori su degli animali, e quella di forze cosmiche potentissime su questi stessi animali divinizzati. Tutto questo era generato da:
-il sentimento pregnante di paternità e maternità originaria. Era il senso, enormemente amplificato e reso più universale, della loro derivazione rispetto a una genitorialità rappresentante quella stessa forza cosmica. Per esempio il padre totemico dei Sioux, il grande Bisonte Bianco ( qui il tabù alimentare scattava solo con quello bianco, di tutti gli altri si cibavano), cavalcava anche le praterie del cielo; anche se in realtà dietro alla figura del padre si nascondeva quella di una grande madre. Infatti narra la leggenda che la figura del bisonte venisse presentata e raccontata per la prima volta miticamente da una figura femminile. Facendo questo il primitivo esprimeva una incredibile operazione complessa:
– si considerava esso stesso un animale e quindi per lui era ovvio e fonte di orgoglio devozionale avere una tale derivazione diretta ( solo più tardi questa assunse il culto degli antenati esprimendo quindi la vera genitorialità antropomorfa)
– nello stesso tempo amplificava queste figure simboliche ben oltre la loro stessa animalità, e direi rispetto alla sua stessa animalità: esprimeva cioè anche un qualcosa di spiritualmente simbolico se a questa frase diamo semplicemente il significato di intelligenza superiore.
– esprimeva inconsciamente sia la paternità che la maternità
– nello stesso tempo sanciva, pur dentro a un fondamentale rispetto della figura femminile, la vittoria del cacciatore e con essa una forma “dolce e sublimata” di supremazia maschile.
Tutto questo assunse per la prima volta, in modo abbastanza sconvolgente per la nostra mentalità, la formalizzazione parentale in figure di animali totemici, come se questi fossero stati i primi genitori e conseguentemente anche le prime maschere dell’assoluto. Infatti gli animali totemici soddisfacevano simbolicamente due funzioni genitoriali decisive: erano coloro che garantivano la vita e la sopravvivenza della tribù, fornendo cibo in abbondanza, e nello stesso tempo dando il senso di una progenitura e continuità fecondativa. Questo perché il cibo era fornito prevalentemente dalla caccia e quindi da cacciatori, che cacciavano un branco, di solito guidato a sua volta da una potente figura maschile. Se la donna col latte materno garantiva la sopravvivenza individuale, la caccia garantiva la sopravvivenza a tutta la tribù ipso facto. Dunque la vita della tribù dipendeva dalla potenza fecondativa e dalla forza della protezione da parte dell’animale totemico. Dipendendo in tutto e per tutto da questi animali capostipiti si capisce come queste figure furono le prime divinità, i primi volti dell’assoluto. La identificazione e l’indiamento col mana totemico, nel corso di particolari cerimonie, comportava la comunione col dio, una sorta di unione estatica. E’ letteralmente un ingresso in Dio che consente all’uomo di far parte in tutto e per tutto della natura divina. E’ collegato ad “entusiasmo” in quanto questa dimensione comporta il massimo della felicità o potenziamento della condizione umana. Tuttavia anche in questa straordinaria trasformazione troviamo una fondamentale ambiguità e duplicità che consiste tanto nell’innalzarsi al dio quanto nell’essere invasi dal dio. In effetti il più delle volte era una sorta di possessione apparentemente benefica e salvatrice. Tuttavia questo invasamento era sempre considerato salvifico e positivo in quanto semplicemente espressione della volontà del dio. All’atto pratico non era sempre così, come quando in realtà spingeva e giustificava “delitti” orribili come nelle religioni andine. Solo a partire dal cristianesimo è stato considerato a livello di possessione satanica, tipica di tutti i riti orgiastici o sanguinari. In effetti a questo punto, assunse un aspetto molto diverso, per non dire opposto a quello “pagano”, ossia di un momento intensamente spirituale di purificazione e sublimazione. In questo senso la parola più adatta è “estasi” in quanto prefigura una elevazione, una uscita dal corpo, dalla materialità, un innalzamento supremo a Dio. Tuttavia anche il concetto di estasi resta una parola polisemica e ambigua: può significare anche trance e si ricollega a impossessamento in quanto il viaggio insieme al dio, ha come meta il fatto di essere invasi, identificati dalla sua compenetrazione ( che diventa vera e propria transustanziazione ante litteram nel caso venga ingerito). Ma, come già detto, nelle religioni mitiche la trance aveva forme opposte a quelle sublimate, presentandosi anche in modi molto brutali e materiali, come mangiare l’animale sacro o di cannibalismo vero e proprio, partecipando a orge di sesso o di sangue (esemplare il mito di Dionisio sulla falsariga della interpretazione freudiana). L’indiamento con queste figure di animali sacri avveniva in due modi: semplicemente mangiandoli, come di fatto dovevano fare per sopravvivere, oppure tramite un opportuno rito e travestimento indossando la pelle dell’animale totemico. Considerato la più primitiva forma di religione, il totemismo ancora una volta assume significati diversi tra le popolazioni primitive e conseguentemente anche tra gli studiosi. Noi ci limitiamo a dire che: rappresenta una forza naturale simbolica ( di tutti i tipi presenti in natura, anche piante, anche rocce, ma preferibilmente un animale) che viene divinizzata, assumendo particolare importanza come capostipite della specie. Può essere mangiato o all’opposto entrare nel divieto del tabù che proibisce questa pratica. Tuttavia per noi questo non significa affatto ( come voleva Levi-Strauss) una specie di lotta tra forze e significati che si azzerano e annullano tra di loro, comportando inesorabilmente il discredito concettuale del totemismo. Anzi si riconfermano in senso pratico, semplicemente in riferimento a ciò che è commestibile oppure no: chi avrà per totem l’aquila non la mangerà in base a un impedimento pratico gustativo e digestivo, piuttosto che religioso. Inoltre c’è il doppio significato: viene mangiato per essere introiettato simbolicamente secondo un concetto che i cristiani più tardi avrebbero definito transustanziazione, oppure viene risparmiato come forma suprema di rispetto verso ciò che è considerato divino. Sono due modi opposti di considerare il divino, ma sempre di divino si tratta in riferimento ai totem. Questo fondamentale rito magico, in cui il simbolo assume ancora una volta un ruolo decisivo, ci riporta ad alcune delle primissime funzioni fondamentali della religione: la divinizzazione dei genitori originari (prima gli animali poi gli uomini), la comunione con loro, il contatto con i morti, l’auto-adorazione della comunità stessa. Poiché i cacciatori sono nomadi e anche le loro prede sono nomadi, tutto questo avviene nella fondamentale figura simbolica e concettuale del viaggio.
Da questa genitorialità estrapolata in modo così fantastico e utilitaristico nello stesso tempo, derivavano anche la proiezione e la invocazione della cura, dell’affetto, insomma della protezione tipica dei buoni genitori. Da tutto questo promana il senso del timore, ma anche di riconoscenza e devozione verso queste figure. In seguito tutto questo passava di competenza ,in modo enormemente amplificato, ai presunti genitori divini, quando questi assunsero la loro vera forma antropomorfa: un qualche cosa che più tardi sarebbe stato chiamato (divina) provvidenza.
Molto probabilmente il culto degli antenati smise si avere caratteristica totemica e assunse la forma antropomorfica nel passaggio dalla fase di caccia e raccolta a quella pastorale, periodo in cui gli uomini impararono ad addomesticare vari animali. A questo punto scoprirono di essere loro i veri padroni del mondo animale, non solo in senso materiale ma spirituale: non c’era più un passaggio di conoscenza dall’animale all’uomo, ma viceversa. Ora gli animali non erano più forze esterne superiori, ma erano costretti a obbedire a una conoscenza e a un progetto umano. A questo punto si ebbe un periodo di passaggio e ambivalenza con un panteon pieno di divinità animali, mezze uomini e animali, nonché antropomorfe vere e proprie (come nella religione egiziana). In tutti i casi il culto ora spettava ai genitori naturale e agli antenati in particolare.
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L’antropologo che più di tutti ha cercato di ridimensionare, se non snaturare e addirittura far scomparire l’importanza del totemismo è stato Levi Strauss, studioso belga di origini ebree. Forse appartenendo comunque a un cerchio culturale monoteista e spiritualista, voleva screditare questo politeismo primitivo che aveva sancito la prima forma di religiosità nientemeno nella adorazione di…animali. Cionondimeno molti autori ( tra cui Freud e Wundt) quando parlano di totemismo indicano:
– che vi era un culto legato al totem
– che gli animali quindi erano sacralizzati
– tanto è vero che venivano considerati capostipiti, cioè i genitori originari. Ora è evidente che questi non sono considerati dei genitori normali come mamma e papà, ma con poteri straordinari. A volte addirittura sono stati indicati come i veri creatori del cosmo.
– infine non vi era solo il tabù alimentare ma anche la comunione-fagocitazione, ossia il vero e proprio pasto totemico. Per esempio :
-il bisonte i Sioux
– il canguro gli aborigeni australiani
– l’orso da parte degli indiani Otawa (america del nord) e Ainu (Giappone): questi ultimi consideravano l’orso esplicitamente come un Dio.
– gli Zuni (Nuovo Messico) mangiavano la tartaruga sacra.
In effetti come ci sono state delle personalità culturali che hanno rifiutato il concetto di darwinismo evolutivo, sconvolte dalla nostra discendenza (per altro ormai irrefutabile) dalle forme più basse della materia vivente, (cioè dalle scimmie se non dai lombrichi, se non dai primi batteri), così altri, disgustati dagli stessi pregiudizi idiosincratici, hanno rifiutato che i primi gradini della processualità religiosa fossero quelli del totemismo animalesco. In effetti questi gradini porteranno pian piano verso i paladini super santi, super spirituali e perfetti delle religioni monoteiste ( anche se qualcuno li ha definiti, a causa delle guerre religiose scatenate in passato, ma forse ricorrenti ancora oggi, i tre impostori). In pratica LS dando scarsa importanza alla funzione magica (per noi resta la più importante) ha fatto dei totem una specie di ufficio comunale e archivio preistorico, individuando diverse funzioni per così dire burocratiche, nonché di doposcuola, esaltando una funzione metodologica classificatoria ed enciclopedica. Inoltre pur di screditare la funzione magica del tabù dell’incesto (come se non fosse vero che questo provoca gravi deformazioni genetiche e alla lunga persino la sterilità delle tribù così destinate a scomparire) ha fatto derivare tale pratica esclusivamente da bisogni di alleanze di tipo economico e militare.
Ha fatto un ufficio del turismo che si doveva occupare delle feste tra tribù; ma così facendo ha anche attivato l’ufficio anagrafe (i matrimoni) e demografico (salvaguardia della procreazione e cura dell’infanzia) nonché camera del commercio (scambi economici) infine di assistenza sociale (prevenire e placare scontri e bullismo tra tribù). Per scoprire questa inusitata complessità moderna sociologica, dentro alla complessità del simbolismo magico (questo si veramente originario, ma destinato secondo lui ad ad andare in ombra) ha dato la più grande importanza ad analisi e calcoli di tipo matematico. In questo modo ha dimenticato che se la eccessiva quantificazione pseudo esatta, è il principale male dei tempi moderni, figuriamoci se applicata a quelli antichissimi. E’ verissimo, e straordinario, che dietro alla apparente semplicità e immediatezza della funzione inconscia, si possa nascondere una complessità logica e fattuale inusitata e inaspettata. Tuttavia resta il fatto che la prima dimensione qualitativa è caratterizzata proprio dal pensiero magico che non può essere ridotto alle formule della quantificazione matematica. Questo non certo per difendere e avvalorare il pensiero magico in se e per se, magari ancora oggi (anzi meno c’è n’è e meglio è) ma esclusivamente per amore di verità. Questo anche nel tentativo di contrastare l’egemonia della matematizzazione imperante nel mondo moderno. Alcuni anni fa si tentò di trasformare in formule matematiche la dialettica hegelo-marxiana; ma questa operazione fantasiosa non salvò dal fallimento della verifica storica la formula concettuale discorsiva e nemmeno quella algebrica: nessuno può dire alla storia quello che dovrebbe fare o essere necessariamente, né con i concetti né con i numeri. Lo stesso procedimento venne tentato addirittura col simbolismo dell’inconscio onde matematizzare la terapia. Ci fu un preside che disse che la funzione insegnante ormai era al tramonto e che sarebbe stata sostituita dai computer; a questo punto si sarebbe potuto dire lo stesso per gli psicoanalisti. A quanto pare anche questo non funzionò, forse per la loro difesa corporativa o per la sconvenienza da parte del paziente di inserire dei gettoni nel computer a mo di jukebox…
Tutto questo non solo appare assurdo dal punto di vista della conoscenza ma eticamente folle. Purtroppo questo non significa che alla fine non possa vincere proprio questa dimensione così alienante, ovviamente imponendosi sul piano della forza. Ne stiamo vedendo i prodromi in un mondo sempre più automatizzato e matematizzato, come quello verso il quale purtroppo ci stiamo avviando (facendoci rimpiangere i totem del passato…). Lo strutturalismo di LS si basa su una concezione deterministica (tutto è necessario e si ripete sempre); ma se questa fosse vera la natura e la materia sarebbero completamente prevedibili (non ci risulta), e a quanto pare l’uomo ancora meno. A questo proposito basterebbe citare come minimo la fallacia delle previsioni elettorali matematizzate. Oltre a questo ovviamente c’è molto di più. Un uomo totalmente matematizzato e matematizzabile sarebbe per davvero un automa completo, cioè qualcosa di mostruoso e inaccettabile, semplicemente perché non è vero. Soprattutto esiste anche una intelligenza emotiva e nel dialogo scatta una funzione empatica affettiva ( verbale e preverbale) determinante per la reale funzionalità del discorso, con buona pace delle funzioni umane matematizzate e computerizzate (cioè ancora una volta smembrate e disattese dal pensiero tecnico-analitico).
Pertanto tornando ai totem non è che scartiamo a priori le ipotesi di LS, ma le integriamo, con le dovute cautele, in direzione della vera primarietà concettuale:
– il totemismo era una formula primitiva di proto-religione, ma è pur sempre il primo passo in questa direzione e non un qualche cosa di eccentrico e aleatorio
– il tabù dell’incesto è esistito veramente su base sessuale, sia per evitare il conflitto sessuale in famiglia (su base relazionale affettiva e “ideologica”), sia per sconvenienza e inopportunità biologica. Tutto il resto potrà anche esserci, ma deriva da questo e non da altro.
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Per convalidare l’importanza magica del totem (uno dei primi archetipi che ne ha prodotti molti altri) possiamo fare riferimento a quanto segue:
– già l’albero era di per sé una figura sacra in quanto simbolo della unione di tre dimensioni magiche fondamentali: a) le radici riportano agli inferi e al mondo dei morti b) il tronco alla dimensione attuale dove vivono gli uomini c) le fronde altissime al mondo (cielo) delle potenze divine supreme
– è stato anche la prima forma che collega, rispetto al rapporto con il sacro, il visibile all’invisibile (sia quello pauroso sotterraneo che quello salvifico in alto)
– poiché il totem spesso aveva anche delle ali è stato una delle prime rappresentazioni simboliche della croce pagana nell’ambito della mentalità mitica. Questo non significa che molti di questi concetti non siano stati ripresi anche dal cristianesimo, naturalmente trasformati in una nuova dimensione spirituale:
– il sacrificio del re sacro (cfr) che paga e redime tutte le mancanze (peccati) del mondo
– il pasto totemico e la comunione identificazione col dio (ricordiamo in un ambito pagano il pasto totemico del bisonte e del canguro)
– il simbolismo ternario
A proposito di simbolismo ternario ricordiamo che la sua matrice originaria consiste nel rapporto tra padre madre e figlio, cioè l’aspetto creativo, produttivo e la continuità della vita. A questo punto la croce e il gruppo ternario assumono moltissime altri significati. Noi ricordiamo quelli più legati e ancorati all’animismo:
– la croce riporta al cerchio, cioè all’idea che la natura e l’universo sono una totalità organica dinamica in cui tutto è collegato con tutto; a questo punto il microcosmo (l’uomo) si ricollega con l’universo: è un modo di pensare ancora una volta che tutto ciò che è esterno all’uomo, questo ce l’ha già dentro di se (e viceversa). Il che come già sappiamo è l’essenza dell’animismo.
– troviamo anche la connessione delle tre dimensioni temporali: passato, presente, futuro. Questo significa che tramite il totemismo l’uomo primitivo (presente) entra in contatto con i morti (passato) e col futuro ( profezia, divinizzazione). Tutto questo sempre tramite l’opera dello sciamano: in particolare identificandosi per esempio col lupo, profetizza il vero tragitto di caccia dei caribù, momentaneamente e misteriosamente scomparsi dalla loro vista.
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Se qualcuno pensasse che l’epoca e il ruolo dei totem sia definitivamente scomparso come rappresentante di una mentalità ormai del tutto obsoleta, si sbaglia di grosso. In fondo come abbiamo già visto, questo pregiudizio riguardava anche gli archetipi; ma che cosa sono i totem se non i primi archetipi religiosi, artistici, nonché feticistici a carattere monumentale?
Abbiamo già trovato in tempi recenti i totem nella svastica, nel fascio, nella falce e martello; li troviamo nei simboli dei partiti e persino negli stemmi delle squadre di calcio impersonate, come ai vecchi tempi, da animali che coagulano lo spirito sportivo o etnocentrico di grande masse. Grandissima importanza hanno i totem della pubblicità, ossia il vero fattore dominante della nostra società anche in relazione alla sopravvivenza del pensiero magico; ma il totem più grande resta quello della croce per tutti i motivi precedentemente elencati.
ARCHETIPI
Tuttavia fino a questo momento non abbiamo ancora detto la parte più importante dell’animismo. Jung scoprì un aspetto straordinario presente in tutta la tradizione mitica, anche la più distante e in apparenza senza contatto e comunicazione: cioè esisteva un gran numero di simboli originari e primordiali (che chiamò archetipi) i quali erano comuni (e fondativi) di molti importanti miti presenti in tutti i popoli. Come mai poteva accadere ciò? Questo accade perché l’inconscio collettivo funziona sempre allo stesso modo, quindi produce gli stessi simboli anche presso popoli distantissimi e (apparentemente) senza contatto. Purtroppo questi archetipi rappresentano simboli feticizzati e assolutizzati spesso (ma non sempre) predestinati a dominare completamente la sua fragile psiche. Infatti pur essendo prodotti dall’uomo, emergono e si impongono come se provenissero dall’esterno. Questo destino simbolico e “ideologico” si impone in base a dueistanze: da una parte originandosi inconsciamente, quindi in forma ipnotica, presenta la doppia caratteristica di essere automatico e inconsapevole; dall’altra assumendo la dimensione divina si inchina di fronte a una potenza assoluta senza possibilità di controllo e di difesa. In pratica è una forma di auto-sudditanza che ha proprio la caratteristica di limitare o eliminare del tutto (sconfinando in un fanatismo aperto) ogni forma di critica e autocritica. Questo avvenimento può esprimere semplicemente una diffusione spontanea di massa, oppure essere profondamente legato e convogliato ai fenomeni del re sacro ( dal culto di Dionisio fino al cristianesimo: in pratica ogni religione che prevede e sancisce il sacrificio del dio) oppure del re mago (ossia l’adorazione divina di capi politici che concentrano su di se il potere totale). Come sappiamo la magia è un fenomeno illusorio di potere sulle cose e sulle persone. Da questo punto di vista il Faraone esprimeva una doppia magia: quella della enormità di un potere totale nonché il fatto di essere effettivamente il capo dei maghi. Infatti era anche il massimo rappresentante di una religione totalmente fondata sulla magia. In seguito si autodivinizzarono, sullo stesso modello del Faraone, Alessandro Magno e gli imperatori romani a partire da Augusto in poi. Anche i re e gli imperatori medievali mantennero in parte queste prerogative, per esempio il loro corpo fu considerato sacro. Per il resto erano limitati dalla compresenza ferocemente conflittuale del papa, il quale però non si accontentava di essere l’ultimo rappresentante del re sacro, ma voleva evidentemente diventare re mago anche lui , assumendo cioè un potere totale e non solo spirituale. Sarà questa, secondo Dostoevskij, l’ambiguità diabolica strutturale del cattolicesimo, ma non certo di Gesù che rifiutò ogni potere subdolamente suggeritogli dal demonio nel “discorso della montagna”. Ora questo fenomeno si è ripetuto con le dittature moderne che hanno sempre presentato forme di divinizzazione feticistica paganeggiante dei loro capi. Da questo punto di vista si possono fare importanti e curiose osservazioni. La divinizzazione di massa dei capi, anche se non esplicitamente conclamata, era richiesta dall’inconscio collettivo del popolo nonché favorita in tutti i modi dal potere. Questo però avvenne secondo modalità diverse. Nel caso del nazismo Hitler non poteva proclamarsi apertamente Dio, ma era effettivamente considerato tale; senza contare, (come è stato ampiamente dimostrato dagli studi di E.Galli), la profonda commistione tra nazismo e magia. Nel caso del fascismo Mussolini non era Dio ma era quasi come se lo fosse; del resto in questo caso il re sacro (il cristianesimo) e il re mago fascista, andarono molto spesso (ma non sempre) a braccetto. Addirittura la chiesa benedisse il massacro dell’impresa della guerra d’Etiopia. Inoltre anche Mussolini credeva nella magia: in particolare temeva la concorrenza esoterica di J.Evola. Nel caso dello Stalinismo e di tutti i leaders più o meno affini, la faccenda diventa assai più complicata. In pratica accadde concretamente la stessa cosa, ma assumendo una forma ideologica opposta. Si proclamava l’adorazione del popolo ma in realtà veniva adorato il capo supremo, si proclamava la fine di ogni religione e l’avvento dell’ateismo, ma in realtà si tornava all’adorazione pagana di uomo solo. Questo per dire che il pensiero magico si impone in modo subdolo e trasformista anche quando viene condannato apparentemente nella sua forma superficiale. Ancora una volta la ignoranza della psicoanalisi risulta nociva da parte di tutti coloro che vorrebbero cambiare il mondo senza avere i prerequisiti per farlo.
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Pertanto gli archetipi, se avessero contenuti negativi (ma potrebbero essere anche positivi) già tipici di una certa mentalità arcaica, calati nel mondo moderno, avrebbero esiti ancora più catastrofici e terrificanti. Quando questo accade a livello individuale abbiamo le più gravi forme di malattia mentale; quando avviene al livello dei popoli magari le chiamiamo religioni o ideologie, ma, nei loro tratti più esasperati, non sono altro che forme di follia collettiva. Alcuni gruppi di primitivi arcaici facevano sacrifici collettivi di bambini e adolescenti in numero relativamente limitato; i primitivi moderni in varie occasioni, hanno prodotto un numero di vittime sacrificali di tutte le età, ma anche giovanissime, spaventosamente amplificato.
Pertanto il primitivo producendo simboli elabora immagini primigenie che diventeranno veri e propri archetipi, ossia paradigmi visionari e comportamentali nello stesso tempo. Questi nel lunghissimo periodo vengono fissati nella memoria del DNA diventando patrimonio ereditario biologico e “ideologico”. Questi archetipi originano e sviluppano la dimensione psichica interna come struttura e come funzione in un modo del tutto inconscio e collettivo nello stesso tempo. L’inconscio individuale verrà dopo staccandosi da quello collettivo, il quale resterà per così dire un inconscio nell’inconscio, cioè la base ancora più segreta e profonda dei suoi comportamenti. Nell’inconscio individuale si depositano i ricordi dei nostri traumi infantili sessuali e non sessuali (reali o immaginari) i quali, a causa della loro funzione dolorosa e destabilizzante, dovrebbero restare segreti o camuffati simbolicamente in una specie di linguaggio cifrato. Questo traspare solo in determinate occasioni (nel sogno e nei lapsus ecc) ossia nei momenti in cui la coscienza perde in parte la sua funzione di censura permanente dei medesimi. La gravità di questi traumi e soprattutto il loro vissuto (soggettivo) determina uno stato di nevrosi (instabilità dell’io, depressione) e una personalità deviata da complessi (patologie comportamentali). Solo se sono molto gravi sfociano in forme di psicosi vere e proprie, cioè di grave deformazione visionaria della realtà (delirio). Tutto questo per dire che gli archetipi, nelle loro forme più gravi e negative, sono già immersi nella psicosi determinando uno stato di possessione da parte di queste immagini sul soggetto che pure le ha prodotte. Inoltre essendo di natura più collettiva che individuale, tendono per loro natura a calamitarsi, a espandersi come una specie di epidemia condivisa. In effetti i primitivi vivevano forme già molto vicine a ciò che determiniamo come psicosi o schizofrenia. Infatti elaboravano le loro fantasie come se fossero la realtà, e pur producendole ne erano totalmente sottoposti ritenendole di origine divina. Pertanto queste forme di possessione erano aggravate prima di tutto dalla dimensione onirica ipnotica e poi anche dalla loro assolutizzazione dovuta alla divinizzazione. Ora è evidente che tanto la rivisitazione dei traumi infantili (con contenuti concreti derivati dall’esperienza) quanto la rievocazione degli archetipi (forme fantastiche ereditate, puramente simboliche ma non meno coattive) avviene tramite una forma di regressione dovuta ad altri gravi shock causati questa volta nel presente. Nel mondo moderno potrebbe essere la perdita del lavoro, una grave delusione d’amore ecc; nella Germania pre-nazista fu la doppia catastrofe della sconfitta bellica e del disastro economico. Questi nuovi traumi indeboliscono o fanno crollare la capacità che la coscienza ha di bloccare la pressione psichica dei vecchi traumi della nostra infanzia (inconscio individuale), e degli archetipi ereditati dall’infanzia della umanità primitiva (inconscio collettivo). I primi sono specificatamente individuali anche se possono essere replicati socialmente: tutti i maschi moderni hanno un complesso edipico particolare, ma appunto per questo lo vivono in modo originale e diverso. Anche gli archetipi possono avere una importante ricaduta individuale molto grave ( per esempio una tendenza autocastrante da parte di un maschio che vorrebbe diventare femmina); ma possono diventare soprattutto dei fenomeni sociali e collettivi anche nel mondo moderno, come erano effettivamente all’inizio della loro storia arcaica e originaria. Pensiamo all’archetipo del guerriero nella Germania nazista in cui la identità maschile veniva divinizzata nell’esercizio della forza e dello spargimento di sangue.
Jung vide nel mito, quando questo riveste una simbolizzazione emotiva positiva, un antidoto terapeutico alle tossine “razionalistiche” e “repressive” della nostra (pseudo) civiltà. Comprese l’importanza di continuare a esprimere (anche nelle nostre mutate condizioni di vita) una significativa dimensione simbolica ed empatica, individuale e sociale, in grado di preservare la qualità di vita sia dell’individuo che del collante sociale. Si tratta di una dimensione simbolica che ieri si presentava egemone e totalizzante in due sensi. Non esisteva solo una funzione negativa della simbolizzazione ma anche una positiva: si tratta di una divaricazione che coincide fortemente con gli aspetti più positivi o negativi della religione; ma anche con quelli fortemente positivi dell’arte. Si tratta comunque di qualcosa che ha permesso all’umanità di sopravvivere e avanzare. Oggi tutto questo rischia di scomparire (la crisi dell’arte) o di sopravvivere in modo del tutto deviante o comunque fuorviante (quello che resta dell’ideologia e la ripresa della religione). In un certo senso è il solito problema di buttare via il bambino insieme all’acqua sporca. E’ quello che accade nella società capitalista attraverso la manipolazione dei media o il virtualismo illusorio e deformante della pseudo comunicazione e socializzazione computerizzata. Noi viviamo nel mondo e nel dominio del simbolo e dell’immagine (propaganda, pubblicità), ma tutto questo non sembra per niente liberatorio, anzi rappresenta la più grande operazione mentale di manipolazione e di plagio di massa mai messa in pratica dal potere.
Non bisogna nascondere o reprimere le nostre emozioni dentro alla pentola a pressione troppo razionale e castrante della nostra civiltà alienante, artificiale e soprattutto pseudo liberale e super conformista. Tuttavia questo ruolo simbolico dell’archetipo positivo sembrerebbeesprimersiancora oggi solo nell’arte e nella religione (aggiungiamo nello sport), mentre ha dato il peggio di se nella ideologia. Purtroppo per quanto riguarda la ideologia ciò è tragicamente incontestabile. Risulta positivo per l’arte in cui è giusta e corretta una certa fusione di opposti tra emozioni, simbolo, conoscenza e soprattutto critica del potere. Si esprime in modo positivamente più dubbio per quanto riguarda la religione, che invece era il cavallo di battaglia dello stesso Jung. Questa critica risulta valida quanto più forti sono i suoi contenuti mitici e più stretto il rapporto col potere (sia quello della casta sacerdotale che di quello politico esterno). Tuttavia oggi come oggi esiste un pericolo forse più grande nel potere simbolico, magico evirtuale, espresso dalla nuova comunicazione dei media e dei social. Questa inibisce la vera relazione empatica e dialogica tra i contraenti, ma soprattutto tra i ragazzi, proprio nel momento così importante della loro iniziazione sociale. Nello stesso tempo Jung non poté ( lui che era stato uno dei primi studiosi del nazismo, terrificante mito dei nostri giorni) fare a meno di metterci in guardia retroattivamente anche dalla componente negativa del mito sempre viva e in agguato, pronta a balzare con la forza di un animale feroce e assurdo, dalle profondità del nostro inconscio.
La spiegazione eziologica dell’archetipo (inconscio collettivo arcaico) è la stessa dei traumi individuali (inconscio individuale moderno): il primissimo trauma è su base istintiva biologica, ma poi questo si manifesta in immagini oniriche che poi a loro volta vengono rielaborate nei miti. Nel mondo moderno le nevrosi, che inquinano e compromettono concretamente la qualità di vita delle persone e delle società, nascondono le loro cause depositate, nascoste e criptate, nel sogno individuale. Questo fino a quando non se ne occupa uno specialista se incidono troppo negativamente nel comportamento delle persone. In caso contrario restano a galleggiare semi-sommerse nella nevrosi sociale moderna, che però è pur sempre la somma di quelle individuali. Anche l’archetipo può avere una ricaduta sulla singola persona alterando gravemente il suo equilibrio psichico; ma può apparire come fenomeno collettivo sia come visione del mondo che come comportamento sociale condivisi. Ora si capisce facilmente cosa può significare alterare tragicamente l’equilibrio psichico di un popolo intero.
E’ interessante notare che, se la scoperta e traduzione degli archetipi spetta all’antropologo, l’operazione analoga sull’inconscio moderno spetta allo psicoanalista. In realtà entrambi svolgono la stessa tipologia di intervento in campi e tempi diversi con metodi in parte simili.
Il guaio è che, secondo noi, gli archetipi forniti da Jung o sono troppo simili ai complessi, o finiscono per coincidere con i mitoleghemi, ossia sono troppo collegati in modo specifico alla funzione narrativa dei miti: la vera funzione sociale universale, tanto decantata di questo fenomeno, alla fine resta un po in ombra.
Infine partendo dal fatto che lo stesso Jung disse che tutto ciò che si presenta sotto una forma marcatamente tipologica e condivisa dalle masse, per lunghi periodi, è a tutti gli effetti un archetipo, noi ne presentiamo una classificazione più consona a questo ruolo e funzione di vero e proprio collante sociale.
Etnocentrismo. Esso consiste nella auto-adorazione e divinizzazione del proprio gruppo etnico o sociale di appartenenza. Questo può intendersi in modo relativo come difesa della propria identità sociale e etnica; ma quando diventa assoluto e aggressivo allora produce mostri. Questo archetipo ha avuto un ruolo positivo nel periodo di caccia e raccolta. In questo periodo la violenza e la guerra era oggettivamente poco presenti limitandosi a delle scaramucce rituali. In questo senso era un formidabile strumento di collante sociale. Ma in seguito, quando la guerra divenne sempre più importante, si caratterizzò come fenomeno globale negativo (soprattutto a partire dagli imperi della rivoluzione agricola fino ai giorni nostri). A questo punto, l’etnocentrismo divenne un fenomeno terribile in funzione della guerra permanente e dello schiavismo. Questi fattori erano diventati i principale elementi dinamici della struttura economica. Come ruolo positivo possiamo indicare anche la nascita del linguaggio. La incredibile proliferazione e diversificazione dei linguaggi è dovuta proprio al bisogno di rinsaldare la identità in senso etnocentrico differenziandola dagli altri gruppi. In seguito questo archetipo degenerando in senso peggiorativo, ne ha provocati molti altri sempre negativi: la trasformazione del cacciatore in soldato, il capro espiatorio esterno (lo straniero da sottomettere e distruggere massacrandolo e schiavizzandolo), la divinizzazione del capo militare ( fino alla terribile dittatura del re mago), il razzismo più deteriore ecc. Tutti fenomeni che ritroveremo in gran parte nel nazismo e in tutte le dittature moderne.
Cacciatore. Questo archetipo che aveva diffusione mondiale per tutto il lunghissimo periodo del paleolitico e del primo neolitico, oggi sopravvive solo nelle ultime tribù che ancora lo praticano ai margini del mondo. Il suo carattere di archetipo lo ritroviamo presso popoli lontanissimi tra loro come gli Inuit (Eschimesi) o i Boscimani i quali dopo l’uccisione della preda pregavano per ringraziarla e chiedere perdono. Inutile dire che quando si passerà dal cacciatore di animali al cacciatore di uomini, cioè alla figura del soldato, si arriverà al massacro sistematico dei propri simili (non contemplato in natura con così tanta quantità ed efferatezza). A questo punto i soldati invece di chiedere perdono alle loro vittime festeggiano vantandosi e gloriandosi della propria brutalità. In questo modo la cosa che più di tutte caratterizzò la umanità nel corso della sua cosiddetta evoluzione, divenne proprio il “perfezionamento” sua totale crudeltà e disumanità. In effetti nella figura del cacciatore eccellevano le componenti positive della virilità, come poi in quella del soldato potevano evidenziarsi quelle negative. Quelle positive le ritroviamo soprattutto nella figura del capocaccia: estrema freddezza nella tecnica di battuta, forza e coraggio, spirito di sacrificio fino alla morte in funzione della sopravvivenza di tutta la tribù. E’ qui che nascono le due fondamentali caratterizzazioni della psicologia maschile e femminile. Fredda e razionale quella dell’uomo in grado di controllarsi anche nelle situazioni più estreme, apparentemente freddo e senza emotività; quella femminile estremamente empatica in quanto votata ad anticipare e soddisfare i bisogni dei figli, predisposta alla cura della famiglia e della tribù, più in generale a tutto quello che valorizza la vita. In effetti la figura del soldato manterrà le caratteristiche positive della virilità solo se si avvicinerà, in un contesto diverso, alla vecchia figura del cacciatore: solo a queste condizioni lo possiamo chiamare, a tutti gli effetti, eroe e difensore della identità sociale di un gruppo, piuttosto che massacratore di un altro. A questo punto possiamo fare altre importanti considerazioni. In queste tribù (periodo della caccia e raccolta) caratterizzate dalla democrazia tribale più o meno ampia e partecipata, le figure dominanti presenti nel consiglio degli anziani ( e potenzialmente di tutta la tribù) , erano appunto il più vecchio e saggio, ma anche quelle del capocaccia e dello sciamano ( a volte raramente coincidevano). Erano queste tre le figure che hanno caratterizzato la primissima suddivisione del potere che poi sarà militare, religiosa e amministrativa. Questo potere in un’epoca in cui la guerra e la proprietà privata quasi non esistevano e che si esercitava nella forma di una democrazia diretta, non aveva quelle caratteristiche ben note di sopraffazione psichica e fisica che lo caratterizzerà più tardi fino ai giorni nostri.
Resta il mistero del ruolo delle donne fino al punto di ipotizzare, nei periodi più arcaici (e quindi più difficili da comprovare e verificare), vere e proprie forme di matriarcato. Una cosa è sicura: non esisteva una vera forma di discriminazione. Nelle situazioni concrete poteva esistere una forma di parità sostanziale, al massimo leggermente sbilanciata, ora favore di un gruppo ora dell’altro. Infine in base a molti ritrovamenti di figure simboliche legate al culto della madre e della terra, molto probabilmente è esistita veramente una supremazia della figura femminile sul piano sovrastrutturale e culturale. Tuttavia che questo comportasse anche una vera supremazia di tipo strutturale (politica o addirittura militare) non è stato dimostrato e probabilmente non sarà mai dimostrabile con assoluta certezza.
Inoltre possiamo osservare come una figura nobile alle origini, col tempo abbia dato avvio, come spesso accade, a una sedicente evoluzione del potere che in realtà finisce con una drammatica involuzione sociale. Infatti anche il capocaccia era adorato e divinizzato e questo è stato l’inizio di un lunghissimo processo che ha portato al re mago (già diventato comunque re soldato), cioè a una figura di super-capo che addensava in se tutti i poteri. Infatti concentrava in una sola persona il potere militare (capo dell’esercito), quello religioso (capo della stessa casta sacerdotale) e amministrativo (capo dello stato); in più con la caratteristica di essere divinizzato , il suo potere, già materialmente assoluto, diventava sovrumano rispetto alla massa adorante del popolo, completamente in sua balia anche da un punto di vista psicologico. Una figura che è trapassata nella storia dal faraone, fino ad Alessandro Magno, infine agli imperatori romani, per poi passare a quelli medievali ed da ultimo ai dittatori moderni. Inoltre nel passaggio dalla fase di caccia e raccolta a quella pastorale si sono formate le primissime forme di discriminazione sociale in base alla ricchezza (terreni e branchi di animali addomesticati). In questo senso la formazione delle prime classi sociali gerarchizzate e discriminate, erano riconducibili alla precedente bravura nella caccia e alla forza fisica e militare all’interno della tribù. Questo è talmente vero che, persino nel medioevo, la nobiltà auto-giustificava ideologicamente il suo diritto di proprietà, facendo riferimento alle più antiche virtù e capacità militari esercitate fin dai tempi più arcaici e lontani.
Soldato. A questo punto l’esaltazione della virilita’ viene intesa, o meglio fraintesa, prevalentemente come espressione di forza fisica, coraggio temerario, tecnica militare e ferocia sanguinaria. In breve la violenza come soluzione di tutti i problemi interni o esterni. E’ un archetipo che si impone insieme alla nascita degli eserciti e degli stati imperialisti già nel primo neolitico. Inutile dire che ancora oggi è una figura dominante. L’abbiamo visto tristemente protagonista di grandi efferatezze anche nelle più recenti vicende tale per cui questo archetipo non sembra per nulla avviato al suo tramonto. I poemi omerici sono totalmente basati su questa figura ben esemplificata dalla persona di Achille che era anche il modello di Alessandro Magno e di chissà quanti altri nella storia: da ultimi anche gli ufficiali nazisti, visto che notoriamente Achille uccideva i neonati troiani sbattendogli la la testa contro il muro. Gli eroi omerici si vantano della loro ferocia come pure gli dei che li appoggiano e sostengono, evidentemente anche essi militarizzati. Del resto uno degli dei più importante è proprio Marte perfetta esemplificazione di questo archetipo.
Suddito religioso e politico. Questo archetipo esprime un bisogno insopprimibile: quello di fondere e annullare il proprio io dentro a una istanza collettiva e coattiva. In pratica si risolve in un forte legame simbiotico omologante e conformista. Ne consegue una forte spersonalizzazione in base a un fideismo feticista che fa dell’individuo un suddito totale del potere politico e religioso. Questi poteri, a rigore, non avrebbero nemmeno più bisogno del deterrente della violenza dell’esercito: il loro comando e carisma è stato talmente interiorizzato, che la stessa obbedienza totale appare non solo un atto dovuto, ma persino gratificante nonostante i sacrifici che essa impone. Facciamo un esempio, aprendo nello stesso tempo, una polemica con certi archeologi egiziani a proposito del reale utilizzo della manodopera per la costruzione delle piramidi. Per prima cosa dobbiamo ammettere due evidenze: la prima consiste nel fatto, ovvio e incontestabile, che trasportare enormi massi nel deserto infuocato richiede uno sforzo fisico pazzesco. Una fatica terribile che apparentemente soltanto degli schiavi potrebbero effettuare costretti dalla forza; la seconda consiste nel fatto che evidentemente doveva esserci una forte mortalità, aspetto in effetti confermato dalla presenza di scheletri persino tra i gradoni delle piramidi. Ora i suddetti archeologi hanno affermato, scoprendo la tomba di alcuni medici tra le fosse comuni degli schiavi, che la salute di quei poveretti stava molto a cuore ai faraoni molto più di quanto si potesse immaginare: insomma non potevano essere degli schiavi ma solo dei sudditi devoti. Ora a parte il fatto che quelli stessi medici avrebbero potuto benissimo essere degli schiavi, i suddetti archeologi non si accorgono che, tra una lancia puntata sulla schiena e la volontà, apparentemente autonoma, di sacrificio totale, non c’è una vera differenza sostanziale. Anzi nel secondo caso è peggio in quanto un servaggio così duro, sarebbe una scelta autocastrante della stessa persona che ha interiorizzato dentro di se la peggiore schiavitù. Come volevasi dimostrare; anzi vengono in mente i casi “spontanei” di devoti in altre religioni che si trafiggono le carni in mille modi: evidentemente una fatica massacrante non basta ancora per esprimere l’annullamento totale della propria personalità. Va da se che questo cattivo gregge richiede un pessimo pastore con i suoi feroci cani da guardia. Come sia potuto accadere che la dimensione psichica originaria delle prime tribù (egualitaria e collaborativa) sia degenerata in questa controfigura totale dell’essere umano, non è dato sapere in modo preciso. Ciò che è sicuro consiste nel fatto che l’uomo cosiddetto civilizzato ha finito per sostituire le parole chiave di solidarietà con quella di obbedienza, di devozione empatica totale (naturale) con quella di ossessione gerarchica subalterna (sociale). Sicuramente il passaggio dalla fase religiosa totemica a quella antropomorfa ha contribuito a questa tragica trasformazione, facilitando l’adorazione sovra-individuale del capo supremo. Tuttavia i fattori veramente determinanti sono stati lo sviluppo demografico della tribù (comportando il sorgere di una complessa gerarchia organizzata a capo di una società ormai classista), l’ampliarsi del territorio ( che ha determinato la fame di terra, la sua conquista e difesa iper-militarizzata) la nascita della schiavitù. A un esercito di schiavi corrispondeva un esercito di soldati e infine un esercito di civili schiavizzati interiormente dall’adesione obbediente al nuovo ordine (disordine) sociale. Ma sicuramente l’esercito dei soldati teneva a bada gli uni e gli altri con le buone o con le cattive.
A questo punto l’adorazione totale del capo e della sua cerchia diventava la custode e garante assoluta del collante sociale, oltre che naturalmente di tutte le ingiustizie che venivano perpetuate in suo nome. Per la prima volta nella storia appariva in modo formalizzato e istituzionale il concetto di verità a priori, assoluta e indiscutibile. Era promossa dal potere politico e religioso, autoproclamatesi assoluti in quanto divini. In questo modo si spacciavano per un nuovo ordine che includeva allo stesso titolo, in realtà sovvertendo entrambi, la natura e la società.
La prima visione religiosa del mondo (animistica-totemica) corrispondeva comunque a un ordine naturale e a una certa spontaneità egualitaria del vivere sociale. Adesso (animismo insieme totemico e antropomorfico), con la scusa di mantenere quello stesso ordine naturale, ma che in realtà si stava già dominando e antropomorfizzando (vedi costruzione di dighe e piramidi), si esalta e impone un ordine totalmente gestito dai vertici del potere. La religione è diventata instrumentum regni e mentre si sbandiera la presunta e rinnovata sacralità della natura e del collante sociale, l’unica vera sacralità è quella del potere assoluto e del suo rappresentante ( re mago). Cercheremo di sviluppare meglio questa nostra intuizione.
RE SACRO E RE MAGO
La vicenda e la interpretazione del re sacro (elaborata da Frazer e Graves) rappresenta veramente qualcosa di incredibile e a prima vista apparentemente incomprensibile. In tutti i casi siamo in presenza di uno dei momenti basilari dell’origine della religiosità più profonda e arcaica. Per prima cosa diciamo subito provocatoriamente che il re sacro è anche un re mago (anzi è lo sciamano per eccellenza) ma che il re mago (che è già il capo dell’esercito e di tutti i poteri) e un re sacro solo in senso indiretto, simbolico e sublimato. Sicuramente anche il re mago avrà comportato una qualche forma di morte e di resurrezione, ma la sua condanna ed esecuzione per così dire popolare, non era assolutamente prevista. Il popolo a certe condizioni si può accanire sul corpo del re sacro; il re mago ha già un corpo divino e chi osasse sfiorare soltanto la sua ombra verrebbe decapitato all’istante. Il re sacro è un archetipo che si ritrova in molti popoli nel periodo fine paleolitico e primo neolitico, il re mago si trova solo a partire dalla rivoluzione agricola e dalla fondazione dei primo imperi (ma lo ritroveremo incredibilmente anche nelle dittature moderne). Gli autori sopra citati hanno scoperto che in molti popoli primitivi esisteva la incredibile figura di un grande capo politico e soprattutto religioso, il quale dopo essere stato adorato e protetto da importanti e severissimi tabù, a partire d un certo momento (di solito nel cambio di stagione dall’inverno alla primavera) veniva sacrificato spesso in modo terribile e con grande sofferenza (accecato, castrato, squartato, bruciato ecc). Com’era possibile un simile comportamento e rovesciamento apparentemente incomprensibile? Ancora una volta dobbiamo risalire all’animismo e al fatto che in realtà non esisteva una vera personalità religiosa, o meglio, siamo in presenza, parafrasando una mentalità moderna, tanto nel determinismo che nell’indeterminismo. Come dire: ha tutti i poteri ma anche può perderli in un men che non si dica. La risposta ancora una volta sta nell’animismo dove ciò che vive l’uomo e ciò che vive l’universo risultano simmetrici e complementari, ma senza che si riscontri una personificazione precisa e rigorosa di ciò che si considerava divino. Del resto il mana non è altro che il potere della vita, ciò che da ed esprime l’esistenza con tutte le sue caratteristiche; ma ancora una volta il mana può essere la forza dell’universo , cioè tutto, oppure semplicemente un raggio di sole, l’abilità di un singolo cacciatore ecc. Passa cioè come se fosse la stessa cosa dal determinato all’indeterminato.
Pensiamo all’universo, in esso si concentra un mana che rappresenta il potere di tutti i poteri , l’armonia suprema, in un certo senso la sua stessa perfezione. A questo punto deve esistere sulla terra un essere a sua volta considerato supremo che rappresenta e incarna questa eccellenza: è appunto il re sacro, uno sciamano con poteri supremi. Senonché accade che nell’universo questa perfezione a volte sparisce in modo tanto tragico quanto problematico e misterioso (epidemie, inondazioni, carestie ecc); infine accade che lo stesso re sacro si scopra a sua volta essere imperfetto, per esempio quando invecchia e non ha più la forza e la completezza della sua passata giovinezza. A questo punto risulta il grande colpevole e la causa di tutto: è lui che non ha vigilato e difeso l’armonia dell’universo, addirittura è lui che ha manifestato nel suo stesso corpo una involuzione che lo fa decadere dal suo assolutismo simbolico. Diventato il capro espiatorio di ogni colpa e di ogni mancanza, scatena nei suoi ex fans, a causa della delusione e dello sconforto, una rabbia e una violenza terribile. Questa è paragonabile in negativo all’amore e alla devozione precedente; ma non c’è solo questo, si trasforma appunto nella ennesima vittima sacrificale, come le altre, per ripristinare l’ordine violato. E chi meglio di lui può esercitare questa ultima funzione? Infatti questo sacrificio rituale non accade solo quando invecchia ma anche quando, probabilmente tardando il ricambio delle stagioni, si pensa di velocizzare e garantire il passaggio con la sua immolazione. Pertanto il re sacro non diventa solo il capro espiatorio di un ordine violato, ma la vittima sacrificale che garantisce la resurrezione della vita , ossia il passaggio dall’inverno alla primavera. Ed è per questo che viene sbranato e divorato come ricordo e rivisitazione magica del pasto totemico, quando si mangiava appunto il dio totemico.
Ancora una volta il collegamento e la trasformazione simbolica sembra portarci indietro invece che in avanti, visto che questa volta a essere smembrato e divorato sarà un uomo e non un animale (come accade nel caso del povero Dionisio). Nella tortura c’è sicuramente il senso di vendetta e di delusione oltre che un esaltante rovesciamento di ruoli (lo vedremo soprattutto nelle Baccanti che appunto si “vendicano” su Dionisio); nello sbranamento troviamo il ricordo e la rivisitazione sanguinosa del pasto totemico. Infine nel cannibalismo non ci sta affatto solo il senso dell’annichilimento e della distruzione totale, ma soprattutto l‘atto magico che permette di andare oltre la morte. In questo modo il dio, proprio come la primavera, resuscita sempre rivivendo all’interno del corpo dei fedeli. C’è infine molto di più: è lo stesso dio che si sacrifica e paga per il male dell’universo e dei suoi stessi adepti. In questo senso il sacrificio del Cristo (soprattutto come è stato interpretato) sembrerebbe essere l’ultima versione, rivista e modificata, del sacrificio del re sacro (si immola per colpe sue e non sue). La stessa cosa potremmo evidenziarla nella forma della eucarestia: vi è un corpo sacro il quale viene assimilato dai fedeli che in questo senso accedono a una forma di indiamento e rinascono alla vera vita. In questo modo il martirio del dio (un martirio terribile che doveva essere pari al dolore del mondo che assumeva su di se) li assolve e purifica dai loro peccati, permettendo l’accesso alla vita eterna. In senso pagano, questa eternità è garantita dalla rinascita irrefrenabile della primavera: ossia dalla permanenza vincente della vitalità che non deve mai soccombere. Ora non è difficile capire che il re sacro non richiede affatto dei sudditi completamente passivizzati, anzi i suoi fans sono pronti a detronizzarlo, a ucciderlo tra terribili tormenti e da ultimo persino a mangiarselo. In questo senso paga le defaillance e le colpe di tutti: quelle sue, quelle dell’universo, infine quelle dei suoi strani e ambigui adoratori che però presentano solo a lui il conto finale di tutto. E’ anche lui un re mago nel senso che è il capo temporaneo degli sciamani. Tuttavia non ha magia suprema del potere sintetico, non più solo simbolica, ma ben concreta, di chi si trova a capo dell’esercito e della stessa casta sacerdotale, detenendo in pratica tutti i poteri. Quest’ultimo non è più solo una figura formale simbolica, ma ha la terribile concretezza della forza suprema, non solo militare ma appunto anche quella che deriva dall’indottrinamento religioso.
L’uccisione del re mago non è più una tradizione tribale, ma un evento storico come potrebbe essere paragonato a un colpo di stato. Un pericolo supremo per i temerari incuranti della morte fisica e della dannazione eterna; anzi è una cosa che, anche quando accade, sarebbe meglio tenerla segreta. Così il re mago ha bisogno di sudditi dall’obbedienza assoluta e viceversa. Si racconta che persino i generali di Hitler e di Stalin avessero paura di andare a rapporto. I fedeli che uccidono il re sacro non si considerano affatto dei ribelli e dei sovversivi ma i veri difensori che ristabiliscono l’ordine sacro; coloro che cercano di uccidere il re mago o partecipano di un complotto semplicemente per sostituirlo, oppure sono dei veri ribelli che gli rinfacciano il male assoluto della sua dittatura spacciato per ordine sociale.
TRADIZIONE (mentalità tradizionale esasperata). Come già detto è tipico del primo pensiero animistico interpretare il presente come male e decadenza assoluta. Al contrario l’inizio dei tempi si presenta come parto esplosivo ricolmo di energia vergine e originaria. In quanto tale rappresenta il modello della assoluta vitalità, la pienezza dei tempi già raggiunta. Subito dopo incomincia una lenta e inesorabile decadenza ( che spiegava così anche le loro terribili condizioni di vita materiali). Per questo ritenendo necessario di ritornare a un mitico passato giustificavano la esaltazione della tradizione, la cui forma immutabile avrebbe garantito anche la sopravvivenza e la forza della tribù. In tutti i casi il tempo attuale veniva azzerato come se il vero futuro consistesse nel tornare indietro. Per loro il progresso era come la marcia dei gamberi per tornare al punto zero. Nel mondo moderno è esistita anche una variante pseudo “rivoluzionaria” (maoista) apparentemente opposta, la quale consisteva non nella adorazione del passato, ma nella sua totale distruzione. Era come se il nuovo punto zero della umanità portasse alla sua assoluta rigenerazione e alla rottura del tempo, promuovendo un’epoca completamente nuova, scevra da tutta la negatività del passato. In realtà è la stessa cosa nel senso che comunque viene distrutto il senso e la continuità del tempo (dimenticando che l’inconscio non si può azzerare e il passato neppure). Così i giovani nazisti distruggevano i musei con la intenzione di ripudiare e impedire la modernità: questa doveva comunque risultare subalterna al passato. Pensiamo alla foto di Hitler che guida un carrarmato con la corazza medievale. Anche i giovani cinesi della rivoluzione culturale, credendo di favorire la modernità ma sprofondando nel nichilismo più negativo, compivano la stessa azione, non solo materiale ma spirituale, bruciando i libri in piazza e distruggendo i musei. Dietro si lasciavano solo macerie fumanti: esprimendo il massimo di violenza gratuita, si illudevano di creare qualcosa di valido sul nulla preventivo.
Le due formule di azzeramento del tempo, apparente opposte, erano in realtà due varianti della stessa pulsione magica nichilista che pretende di sostituire il simbolo con la realtà.
ARCHETIPI DEL NAZISMO.
Quasi tutti gli archetipi già presentati li ritroveremo nel nazismo. Tuttavia questi potrebbe essere benissimo validi pure per il comunismo, anche se in modo diverso nella forma, ma non nel risultato: il soldato, il suddito, il re mago, il capro espiatorio, la magia, la tradizione. Solo queste due ultime componenti espressero nel comunismo un destino complesso e curioso. Come già detto il comunismo negava tutte le forme religiose e figuriamoci quella più primitiva della magia; ma in realtà la esercitava subdolamente come forma di pensiero magico inconscio. Per quanto riguarda la tradizione, essendo giustappunto dei rivoluzionari, i comunisti in un primo momento la rinnegarono sotto qualsiasi forma totalmente e violentemente. Ma non appena presero il potere si trasformarono in custodi dogmatici, feroci e intransigenti, della loro nuova tradizione. Il nazismo si vantava provocatoriamente e subdolamente di essere il male assoluto. Il comunismo tutto al contrario proclamava di promuovere la vera rigenerazione della storia e con essa il bene assoluto. Alla fine entrambi hanno creato terribili campi di concentramento e promosso società schiavizzate dal pensiero unico del re mago (opposte nella forma ideologica ma non appunto nel risultato finale). Il nazismo ha utilizzato direttamente la magia, il comunismo l’ha orgogliosamente negata insieme a tutte le forme religiose, salvo poi utilizzarla inconsciamente e creare la peggiore forma di religione: quella pseudo-atea in adorazione di grandi assassini divinizzati.
Detto questo rimandiamo alla presentazione già fatta degli archetipi aggiungendo solo poche considerazioni.
L’auto-adorazione del re mago porta con se anche l’auto-adorazione del gruppo sociale. È questo che provoca una forma di etnocentrismo esasperato e quindi al terribile razzismo etnico tipico del nazismo. Ma è esistita anche una forma di razzismo culturale e ideologico che comportava la distruzione di chiunque la pensasse diversamente. In questo senso il diverso va semplicemente annientato. A questo livello la critica, l’autocritica e con essa tutti i valori spariscono del tutto, completamente uniformati al pensiero unico del capo supremo (re mago).
Questa reciproca adorazione comportava la fusione emotiva tra il capo e le masse e le masse tra di loro: fusione in cui demoniacamente si perde, a volte nel corso di una trance collettiva, ogni identità personale e si eccitano gli istinti più bestiali. Non a caso Reich ha chiamato questa fusione “peste emozionale”. Ora se questo accadeva in una piccola tribù era un conto, se accadeva a milioni di persone, come palesemente nel nazismo ( o in modo più nascosto ma non meno concreto, nel comunismo) era un altro. Sull’altare feticistico della storia, o meglio in sacrificio al moloch della storia, o in nome del bene o in nome del male, finivano annientate milioni di persone.
Un’altra differenza importante consisteva nella interpretazione e realizzazione diversa del capro espiatorio. Per i nazisti era soprattutto esterno e riguardava tutte le razze che non fossero ariane. Per i comunisti era soprattutto interno e riguardava tutti coloro che si fossero trovati fuori linea dai piani strategici o quinquennali del partito.
MAGIA
Nell’animismo le cose stesse sono vissute più come simboli che come realtà “materiali” del tutto separate ed esterne. Ecco allora apparire come per incanto un mondo in cui le cose provano dolore, gli animali parlano e i morti non sono morti, hanno solo cambiato dimensione. Anzi adesso sono ancora più forti e importanti di prima, al punto che salgono di grado nella divinizzazione, generando il culto degli antenati. I primi antenati sono stati gli animali totemici capostipiti della tribù, poi i parenti passati a miglior vita. Solo arrivati a questo punto è finalmente riconosciuta la vera paternità e maternità originaria del genere umano. Dunque, incredibile a dirsi, nell’animismo il simbolo ha vita propria: la parola, l’immagine, il pensiero, le azioni (i riti, danzare cantare, le operazioni magiche) hanno una vita e potenza intrinseca, anche a distanza nel tempo e geograficamente. Tuttavia esistono simboli cose (acqua, fuoco, feticci vari) che hanno più potere di altri nel condizionarsi a vicenda, e soprattutto uomini speciali (sciamani) che sono in grado di attivare “magicamente” questi simboli collegandoli tra di loro a scopi pratici positivi o negativi. Ora il collegamento magico è dato proprio dalla natura polisemica, poliedrica e associativa del simbolo le cui corrispondenze (o la misteriosa fantasia dello sciamano) si calamitano tra di loro in senso positivo o negativo. In questo modo la magia utilizza pezzi di materia con valore simbolico di inclusione (empatia) esclusione; il risultato finale sarà un beneficio o un maleficio. Ciò che agisce nella magia o sono simboli effettivamente collegati tra di loro a vario titolo, oppure dei semplici oggetti magari i più strampalati, che però sono stati ribattezzati e reinvestiti con un nuovo potere magico simbolico particolare. D’altra parte se tutti gli enti del mondo in quanto animati hanno una volontà, vien da se il tentativo di entrare in contatto con loro cercando di condizionarli a piacimento.
INDIVIDUO E COMUNITA’.
Dopo aver detto questo emergono tuttavia due importanti contraddizioni, in relazione a due dialettiche, probabilmente irrisolvibili: individuo-comunità, il mito tra liturgia e variazione.
In effetti si è capito che la comunità dei primordi era fortissima, forse ancora più forte di quello che poteva essere uno spirito di branco vero e proprio. Probabilmente non avevano nemmeno il concetto di io o il suo presentimento, non di meno lo esercitavano. Non è pensabile che tutto il gruppo, immediatamente e in perfetta sintonia, si sia messo a esercitare le sequenze gestuali di una certa danza , o addirittura camuffarsi da quell’animale: qualcuno lo ha fatto per primo e poi gli altri si sono adeguati. In tutti i casi l’individuo si sentiva risucchiato, non solo nella sua stessa comunità di appartenenza, ma dentro a universo simbolico ed emotivo imprescindibile. Era appunto una forma di immaginario collettivo che nonsembrava ammettere deviazioni singole, ma una specie di spartito comunitario già precostituito. In realtà, come anche nel branco animale istintivo, emergevano delle individualità (il capo branco), così poteva accadere anche nel nuovo branco simbolico. Resta molto difficile stabilire quanto questa individualità fosse vissuta nei termini effettivi di autonomia e creatività: lo stesso sciamano non faceva altro che impersonare degli spiriti che si incarnavano in lui , il suo potere derivava da loro e non certo prioritariamente da se stesso. Non parlava mai a titolo personale, ma in un certo senso a nome degli spiriti con cui comunicava e che lo invadevano. Nello stesso tempo si esprimeva a nome della tribù. Stesso discorso per i primi ominidi che hanno elaborato dei graffiti: non pensavano certamente di essere dei veri creatori…Questo discorso è talmente vero che per secoli pittori e scultori non si firmavano nemmeno come se la loro opera fosse al di sopra di se stessi (evidente sopravvivenza di una mentalità mitica). La predisposizione magica dello sciamano era riconosciuta e garantita dalla tribù, ma anche da essa eventualmente revocata. Lo stesso discorso vale per la produzione del mito: chi lo ha incominciato? Era elaborato da un singolo o dalla partecipazione di tutta la tribù? Entrambi le cose evidentemente, (anche in base alla famosa democrazia tribale), ora con la prevalenza di un fattore, ora di un altro. Un altro spunto di contraddizione è dato dal fatto che, come abbiamo già detto, il mito accentua e formalizza definitivamente il carattere finale liturgico del rito; ma nello stesso tempo il mito presenta molte deviazioni-derivazioni come un albero e le sue radici. Questo sembrerebbe in contraddizione con la predisposizione al dogma della sacralità univoca e imperativa. Il fatto è che il primitivo non ne aveva coscienza, non conosceva il principio di non contraddizione, e soprattutto viveva di fatto gli opposti come se fossero veramente fusi in unità simboliche superiori. Dobbiamo quindi arrenderci a quelle che sembrano incongruenze infantili. Esse sono invece preziose ambiguità: i limiti di una mentalità che viveva tutto in una continuità emotiva sintetica e mai separata.
DEMOCRAZIA TRIBALE.
La democrazia tribale tipica di piccole tribù durante caccia e raccolta (ma anche nel primo neolitico) è stata la prima forma di democrazia diretta della storia. Nonostante il ruolo propositivo e autorevole degli anziani, alle decisioni più importanti potevano partecipare tutti. Jak London, in un famoso racconto sugli eschimese (al cui contatto era vissuto a lungo) parla di una assemblea a cui parteciparono persino donne e bambini. La stessa cosa accadeva presso la tribù dei Kung in Africa. Si trattava di una comunità che garantiva una forte tendenza paritaria tra i due sessi. Senza la democrazia tribale non sarebbe sorto lo straordinario fenomeno culturale della nascita e sviluppo dei poemi omerici. Essa ci insegna che, anche in condizioni materiali poverissime, la libertà di parola e di decisione collettiva restano le cose più importante. Anche se completamente immersi e identificati nella natura avevano anche una forma di autodeterminazione “politica” e culturale. Nello stesso tempo ritenevano di essere in balia di potenze superiori che tuttavia loro stessi avevano inventato.
SCIAMANO-A
La prima grande figura di intermediario con le potenze supreme fu lo sciamano. Questi si presenta subito come la figura di un mondo “rovesciato”. Quello che per noi avrebbe dovuto essere una specie di super eroe (come saranno effettivamente gli dei olimpici) si presenta al contrario come una specie di infra uomo (di fatto), che però viene considerato (simbolicamente) come un super uomo, ma non a titolo personale, bensì a nome di potenze supreme e della stessa tribù. In definitiva non è altro che un prestanome. Infatti lo sciamano in base alla mentalità mitica simbolica per cui tutto ciò che deviava dalla norma era straordinario e quindi collegato alla divinità, aveva a vario titolo i segni di una marcata marginalità e trasgressione: carattere fortemente chiuso e solitario, oppure diversità biologica (epilettico, ermafrodita, cieco ecc). Particolare importanza aveva la epilessia (che non a caso venne chiamata la malattia sacra) in quanto riportava, in modo esagerato e completo, a quello che tutti gli uomini di quell’epoca vivevano: una specie di trance permanente. Questi uomini (e donne) venivano scelti e investiti per il loro valore simbolico intrinseco. Del resto, anche se più raramente, sono esistite delle figure di sciamane femmine. Il fatto che anche la natura venisse sacralizzata nel suo complesso, costituisce uno degli elementi di più grande difficoltà interpretativa. Infatti veniva divinizzata anche la figura di una grande madre: la terra che ha maternamente partorito ogni cosa, alla fine la riprendeva di nuovo nella sua oscurità. Tuttavia il fatto stesso che le figure di sciamani maschi fossero più numerose ci fa pensare comunque già allora a una forma di prevalenza maschilista. In effetti lo sciamano maschio è nomade e cacciatore ed è così che entra in contatto col dio totemico. La sciamana femmina si trova, più raramente, in tribù più sedentarie e maggiormente dedite alla raccolta che alla caccia, o nelle fasi successive legate comunque alla terra e ai suoi riti. La sua importanza è legata ai riti del parto ma soprattutto alla funzione curativa della prima scienza, ossia la erboristeria. La prima maga è una madre benefica che conosce i segreti della natura (più tardi verrà bruciata come strega). Ma come potevano convivere, a quei tempi così lontani e confusi, la dimensione maschile e femminile della divinità? Questo ancora oggi è veramente molto difficile da interpretare. Vogliamo fare semplicemente delle osservazioni forse banali sulla vittoria maschile della figura del cacciatore su quella simbolica emotiva empatica della madre, prototipo universale della cura. Infatti se poi ha prevalso storicamente e concretamente la figura dello sciamano maschio questo è successo sicuramente per via di un processo necessario per forza di causa maggiore. Stiamo parlando della forza fisica sul piano della prestazione, non ancora sul piano della mera violenza (quando diventerà soldato). Inoltre il cacciatore aveva acquisito una particolare capacità e competenza nei riguardi di questa attività fondamentale. In questo senso l‘aderenza sul piano della effettualità della realtà tende sempre, a prescindere, a prevalere su quello del valore. In effetti la prima necessità imprescindibile era difendersi da animali ferocissimi (nonché dalle altre tribù) e nello stesso tempo cacciarli per cibarsene. Questo ovviamente lo poteva fare a tempo pieno solo l’uomo e non la donna gravida o con le mammelle piene di latte. Stando le numerose gravidanze la donna, essa avrebbe potuto fare il cacciatore solo partime o comunque in modo alternato. Anche se queste considerazioni non sono sufficienti a spiegare il fenomeno, è comunque evidente che alla fine prevalse il cacciatore, sia pure in modo morbido e mediato.
Solo dopo che i cacciatori avevano portato cibo a sufficienza alla tribù, poteva svolgersi la funzione enorme della cura poliedrica della donna; altrimenti morivano tutti di fame. A priori la figura materna e il parto tellurico originario sembrano avere un ruolo assoluto; ma a posteriori e concretamente il protagonismo spetta al cacciatore, sia pure in seconda battuta. Senza la prima nulla avrebbe avuto inizio; ma senza il secondo tutto sarebbe finito. La vera tragedia è stata quando il cacciatore è diventato soldato, esercitando su tutti una violenza fine a se stessa. Anche perché l’assoluto non può essere certamente ne maschio ne femmina: o forse è tutte e due? L’ipotetico ruolo e periodo del matriarcato resta legato al culto della dea madre; ma questo è troppo legato a reperti frammentari e periodi incerti per assumere un ruolo chiaro, definito e universale. In tutti i casi gli sciamani non erano solo dei simboli feticizzati, non erano solo dei simboli di per se, ma producevano simboli essi stessi. In questo modo svolgevano per la tribù una duplice funzione importantissima: producevano la loro visione mitica religiosa, nello stesso tempo implementavano la loro coesione sociale e identificazione culturale. Dunque lo sciamano doveva avere delle caratteristiche che già lo prefiguravano in modo straordinario agli occhi della tribù (deformazione corporale, eccentricità di comportamento, caduta in trance). Tuttavia il punto decisivo consisteva proprio nel resoconto del suo viaggio a contatto col dio o nel regno dei morti. Ne ricavava delle visioni oniriche che poi al risveglio, gli permettevano di svolgere un ruolo decisivo rispetto alla produzione e tradizione mitico tradizionale della tribù. In pratica era in grado di manipolare (inconsciamente) i suoi stessi simboli in modo di ampliare e nello stesso tempo rispettare la tradizione. In questo modo svolgeva un ruolo essenziale nella costituzione dei mitologhemi: ossia forniva il primo materiale originario, (paradigma-archetipo) di un mito al quale si potevano aggiungere infinite variazioni senza modificare completamente il significato primario. I mitologhemi sono i mattoni primari e originari delle costruzioni mitiche: i mattoni sono gli stessi ma i racconti materialmente variano. La cosa incredibile è che questi mattoni (archetipi) li troviamo in molti popoli a enorme distanza tra di loro nei vari continenti. Facciamo due esempio semplicissimi tra i molti che si potrebbero usare: abbiamo il mitema del bambino sopravvissuto miracolosamente, Mosè, i due gemelli romani, lo stesso Gesù; oppure il mitema famosissimo del diluvio universale. Tuttavia questo straordinario protagonismo creativo restava come anonimo e clandestino, completamente risucchiato in una dimensione sovra-individuale. Hegel avrebbe detto che era completamente assorbito nella sua stessa opera.
In effetti l’aspetto della individuazione precisa e circostanziata della sacralità resta il grande problema insoluto dell’animismo-panteismo naturalista (preanimismo). Se tutto era dio, se dio assumeva qualsiasi forma e si trovava dappertutto, allora non era niente (di particolare) e non si trovava da nessuna parte (circoscritta). Il tempio era la natura tutta quanta. Si trovava dentro a tutto ma era anche, nello steso tempo, al di sotto e al di sopra di tutto. Questo prefigurava a livello precategoriale la coppia immanente trascendente. Tuttavia questo accadeva in un modo talmente confuso e fuso da non trovare una soluzione. In questo modo questa sacralità primitiva restava diffusa, tanto poliedrica quanto indeterminata. Questo paradosso e questa contraddizione si acuiva al massimo in relazione alla interiorità e al vissuto umano: poiché tutto era dio, l’uomo stesso era dio e nello stesso tempo era sottomesso a dio, cioè a se stesso. In altre parole era succube della propria visione simbolica mentale divinizzandola e quindi rendendola assoluta. Era sottomesso a se stesso o meglio agli archetipi simbolici del proprio inconscio. È proprio il riaffiorare di questa sudditanza nell’inconscio che determina, ancora oggi, le più gravi malattie mentali di origine non somatica. Lo sciamano poteva manipolare le forze della natura attraverso riti appropriati , poteva apparentemente condizionare la stessa volontà del dio. Ma questo accadeva perché il dio agiva già dal di dentro degli esseri umani: in definitiva il dio, attraverso l’uomo, modificava se stesso. Conseguentemente il primitivo non concepiva questa modificazione come se fosse opera sua, ma sempre come iniziativa del dio. Non dimentichiamo che spesso il primitivo non pensava nemmeno di produrre un pensiero autonomo: era sempre il dio che si impadroniva di lui imprimendo pensieri ed emozioni. Per esempio Marte spingeva gli uomini alla guerra e Venere all’amore. Tuttavia e contraddittoriamente, nonostante che il mito rappresentasse il messaggio orale originario a testimonianza della primissima forma di sacralità ( il mito è lo stesso racconto degli dei, ma così come è stato recepito ed espresso dai primi umani), nello stesso tempo presenta spesso incredibilmente, infinite varianti dello tesso racconto. Evidentemente la spontaneità creativa irrefrenabile, tipica di chi era prima di tutto un poeta, prima ancora che un sacerdote, andava inconsciamente oltre quel limite che essa stessa avrebbe dovuto rispettare liturgicamente. In realtà, questo imprescindibile rispetto sacrale, si manifestava e manteneva soprattutto a livello di mentalità generale. A volte era la stessa collettività, la stessa tribù , quindi un soggetto collettivo, che poteva, probabilmente inconsciamente, introdurre al racconto “sacro” delle varianti, spesso assai numerose. In altre occasioni era nell’ambito di una attiva partecipazione collettiva, che qualcuno poteva introdurre delle modificazioni, mai parlando a titolo personale, bensì a nome della tribù oppure essendo portavoce della stessa divinità. Più spesso spettava proprio allo sciamano elaborare e modificare il mito. Era lui la persona che più di tutte svolgeva questo ruolo (istituzionalizzato). Viceversa l’individuo in quanto tale, era tenuto a rispettare lo spirito e la lettera dei significati magici, specifici dell’immaginario complessivo e tradizionale che costituiva la base identitaria della tribù. In caso contrario si esponeva alle terribili punizioni tipiche dei tabù: la cui forza coattiva, magica e sociale, era talmente introiettata ipnoticamente che spesso il malcapitato si autopuniva da solo. Questo aspetto visionario e ipnotico (attivo o passivo) della condizione umana rispetto alla produzione della sua mente è purtroppo intrascendibile all’interno della sua immediatezza, della sua spontaneità e naturalezza originaria. Questo aspetto era completo presso i primitivi, ma purtroppo resta decisivo anche tra i moderni (i primitivi moderni). È esattamente quello che succede a tutti, fin da bambini, con le nostre visioni del mondo, sia quelle create attivamente da noi (ammesso che sia possibile in tenera età), sia quelle derivate e plagiate dalla famiglia, dalla religione, dalla scuola, dalla società. Ed è esattamente questo che Platone intendeva per eikasia, cioè il fondo più oscuro e più infantile della nostra produzione (caverna) mentale. Solo lo sviluppo della filosofia critica può salvarci dalla deriva di animale simbolico e ideologico che rischia costantemente di perdere ogni valenza critica e di confronto reale col mondo esterno. Ammesso che questo strano animale non lo abbia già perso del tutto e per sempre: ieri a causa del mito, oggi dell’ideologia. Per uscire da questa prima forma di animismo indeterminato i primitivi inventarono il totemismo, dando finalmente forma e figura alla divinità, nello stesso tempo creando una organizzazione gerarchica della natura e della società. Tuttavia questo non risolse il problema, lo spostò semplicemente in avanti verso l’adorazione di forme mentali superiori ed sempre più evolute, ma sempre feticistiche e coattive. In questo modo siamo passati dal simbolismo primitivo del mito, alla rappresentazione (misto di simbolo e concetto) della religione, al concetto vero e proprio, metafisico ed autarchico della filosofia. Tutto questo si espresse dunque in figurazioni linguistiche sempre più organizzate e autogiustificate, ma solo formalmente, senza cioè un vero confronto e senza un vero contatto con la realtà. Per approdare definitivamente a questa fondamentale conquista dello spirito umano bisognerà aspettare lo sviluppo della scienza con Galileo. Questa prevalenza e prevaricazione della rappresentazione mentale scollegata dalla realtà nacque in termini mitici, in seguito religiosi, continuò in quelli filosofici e da ultimo ideologici con le conseguenze che ben sappiamo. Per fortuna nella filosofia, gli errori e le deviazioni mentali della metafisica sono rimasti tali, comportando più raramente gravi conseguenze storiche sanguinarie. Ma nel filone che lega in modo sotterraneo mito, religione e infine ideologia, gli errori mentali si sono spesso trasformati in veri orrori, evidenziando incidenti di percorso che sono costatila vita a milioni di persone. Da questo punto di vista aveva ragione Husserl, nel senso che dovremmo avere il coraggio di fare periodicamente epochè. Come portiamo periodicamente l’automobile a revisionare così dovremmo fare con le idee e i valori della nostra mente, sottoponendole a un vaglio critico disincantato e disincarnato, rispetto al nostro eventuale fideismo e feticismo mitico ideologico. Questa volta però senza dimenticare che lo strumento principale non è il puro ragionamento ma la verifica concreta. Solo lei può tagliare la testa al toro di tutte le argomentazioni pretestuose di cui si ammanta la cieca volontà delle nostre rappresentazioni prevaricanti. E’ questa la vuota e cattiva edificazione del nostro ego autarchico e visionario. E’ certamente idealistico ma in senso negativo e fantasmatico. Tuttavia non è vero che è sempre destinato a restare prigioniero del suo cerchio magico come ci attesta l’esperienza tutti i giorni.
MITO E RIVELAZIONE (LA MANIFESTAZIONE DEL DIO)
La divinità in quanto tale, la sua stessa presenzialità era sfuggente: essa amava incarnarsi e trasformarsi in mille travestimenti totemici. Essi potevano essere offerti dal mondo naturale sacralizzato dalla fervida fantasia dell’uomo. Per lo stesso motivo buona parte della volontarietà e finalità di queste presenze incombenti, nello stesso tempo tanto camaleontiche quanto elusive, doveva restare misteriosa in quanto tale. Gli dei dei primitivi potevano ambiguamente cambiare idea, cosa che sarà preclusa al rigore morale delle religioni monoteiste e alla coerenza degli assoluti logici della filosofia. Inoltre proprio perché troppo in alto, il loro pensiero e il loro volere, doveva restare fondamentalmente inaccessibile al piccolo essere che li interrogava e ascoltava con reverente timore e tremore ( in realtà magicamente, infantilmente ipocrita e furbesco). II dio quindi si manifestava solo in parte, soprattutto in modo volutamente enigmatico, lasciando quindi vaghe ombre ed orme del suo veloce passaggio e del suo messaggio esoterico. In questo senso il mito non è altro che l’inseguimento e lo svelamento, da parte del primitivo, di queste tracce nel tentativo di esplicitarle. Tuttavia questo non potrà mai avvenire del tutto, essendo tenuto, necessariamente, strutturalmente, a rispettare la loro ambiguità originaria. Ecco perché tutti gli oracoli, che sembrano apparentemente celebrare finalmente la volontà profetica e veritativa del dio, svelando agli uomini addirittura il futuro, in realtà sono sempre profondamente ambigui e oscuri. Spesso presentano diverse variabili interpretative per così dire di riserva, tale per cui li dio ha sempre ragione e l’uomo, caso mai ha sempre torto ( a causa della sua finitezza ed indegnità). Per lo stesso motivo se l’uomo fosse veramente riuscito nel suo intento di decifrare tutto, allora sarebbe divenuto lui il vero dio e avrebbe finito per detronizzare quelle potenze che invece lo dominavano concretamente in tutto e per tutto ( salvo rare scappatoie di tipo magico). Del resto l’uomo primitivo si rendeva perfettamente conto di conoscere pochissimo e di essere avvolto nel mistero, insomma di vivere in un mondo che appariva effettivamente come un sogno denso di arcana oscurità. Le parti costitutive di questa religiosità sono: il panteismo, animismo, la magia, il mito-rito; il mito vero e proprio viene da ultimo. Quando le tribù si radunano attorno al fuoco e per la prima volta i primitivi raccontano e sacralizzano la loro prima interpretazione del mondo, hanno già alle spalle millenni degli elementi precedenti che adesso però, vengono finalmente sistemati in una tradizione orale (molto più tardi accadrà anche con la tradizione scritta). Il mito come racconto è già una fase finale complessiva e sintetica della attività magica rituale dei secoli precedenti. Il mito presuppone lo sviluppo per quanto minimo di una certo livello di autocoscienza ,altrimenti non si capirebbe l’organizzazione narrativa sia come unificazione che come variabilità; ma soprattutto presuppone la nascita e lo sviluppo del linguaggio dalla prevalenza del non verbale alla prevalenza del verbale.
ENCICLOPEDIA MITICA
Ora nessuno può datare con precisione la nascita di tutti quei preziosi fattori che costituiscono l’inestimabile tesoro culturale del mito. Questo perché sicuramente hanno avuto un tempo di gestazione lunghissimo. Non possiamo soffermarci sulla nascita del linguaggio che costituisce uno degli argomenti più affascinanti, ma anche più complessi e controversi, nella storia della antropologia, presentando tra l’altro, come al solito, una quantità impressionante di interpretazioni molto differenti e contrastanti. Pertanto il mito non è stato solo la primissima palestra del linguaggio e del pensiero, ma una specie di enciclopedia (magica). In essa viene depositato e memorizzato per le generazioni future, tutto quello che i primitivi hanno imparato dalla natura insieme a tutti i loro vissuti (collettivi) emotivi e simbolici più importanti. Nel mito non c’è solo l’aspetto per così dire fantastico simbolico ( a volte indecifrabile) ma anche la conoscenza vera e propria , pratica e utilitaristica. Il primitivo che affronta la enciclopedia magica dei significati della foresta in cui vive, non di meno la conosce concretamente e utilitaristicamente. La magia sintetizzava perfettamente entrambi questi aspetti, cioè la dimensione specifica e qualitativa del simbolismo magico, e la sua ricaduta pratica e liturgica sul piano tanto devozionale quanto strumentale. Il che significa una particolare strategia per cambiare, plagiare la volontà degli uomini e degli dei (la natura).
Nel mito e tramite il mito è nato tutto ciò che caratterizza la cultura:
-il passaggio dall’istinto alla produzione simbolica
-l’ inconscio collettivo e gli archetipi
– il linguaggio
– le prime forme di religione: pre-animismo, animismo, magia, totemismo, panteismo antropomorfico
-l’arte
-la strutturazione sociale
-tutte le primissime scoperte e situazioni di evoluzione antropologica sia a riguardo della struttura (il miglioramento delle condizioni materiali di vita) che della sovrastruttura ( l’evoluzione delle condizioni culturali, ossia la religione, l’arte ecc.) In certi momenti queste situazioni si fondono completamente. Pensiamo alla scoperta e utilizzo del fuoco: questa cambiò completamente l’attitudine mentale degli ominidi, non solo perché migliorò enormemente le condizioni di vita, ma costrinse a una evoluzione nel vissuto del sacro, forse il primo passo verso una potenziale autonomia che poi venne descritta mirabilmente nel mito greco. Anche nella costruzione delle piramidi notiamo un enorme passo di tipo tecnologico e nello stesso tempo ideologico: anche il Faraone è una potenza divina a tutti gli effetti, soprattutto adesso è rigorosamente personalizzata, non è più un semplice mana che si diffonde anonimamente dappertutto.
MITO GRECO
Ben diversa era la situazione del mito greco; non nel senso che anche la dimensione affabulatoria non fosse mirabilmente rappresentata, ma dentro c’era molto di più che un bel racconto o la prima forma di sacralità animistica e totemica. Osserviamo il significato della la parola muthos in greco antico. Essa non significa affatto come ci aspetteremmo, un racconto fantastico secondo uno sfrenato gioco della immaginazione primitiva; significa al contrario la parola, il racconto vero. Attenzione:quello più vero di tutti , quello che essendo vero in assoluto, si presuppone essere inoppugnabile. Quello che in nessun caso potrebbe essere messo in discussione ne criticato. Chi lo avesse fatto sarebbe risultato essere empio, sarebbe andato contro il dio (e soprattutto contro la tribù). In questo senso è la prima forma di assoluto, anche se a questo livello l’assoluto è ancora una domanda, una interrogazione piuttosto che una risposta. In ogni caso viene rappresentato e concepito come qualcosa di potentissimo e ultra-umano, tale per cui non si può giudicare e comunque farlo sarebbe pericolosissimo. Ma perché, il racconto più vero, la parola più vera? e perché in quanto tale di per se indiscutibile? Ora tutte le produzioni culturali primitive hanno avuto, con diverse accentuazioni, la medesima caratteristica di presunzione e imposizione della loro particolare visione del mondo. La sua funzione di collante sociale sacro era in quanto tale inderogabile. Tanto è vero che la stessa formazione dei tabù , pur così complessa (se ne parlerà più avanti a parte) ha sempre avuto anche questa funzione, ossia di punire gravemente chi disobbedendo al precetto in un certo senso non ci crede, lo disattende, lo falsifica. La qual cosa era evidentemente inconcepibile. In questo senso l’empio, l’eretico svolge due funzioni estremamente sconvenienti: ridicolizza la tribù e facendo questo ne mina anche la compattezza. Nello stesso tempo si capisce che questo sarà il destino di tutti gli innovatori, cioè quello di essere scambiati per degli eretici dispregiatori dell’ordine sociale e perseguiti in quanto tali. E’ successo a Socrate, successe a Gesù ecc. Per questo Hegel dirà inopinatamente che gli ateniesi avevanno fatto bene a condannare Socrate: la società aveva il diritto di difendersi barricandosi dietro alla diga del suo conformismo. Pertanto ridicolizzare questo ordine formale, liturgico e pregresso, come se non fosse vero, diventa una colpa gravissima, diventa una bestemmia contro gli antenati. Per fortuna questo spirito di rottura e di spregiudicatezza così forte nell’ambito greco (a partire dal mito), ha avuto una funzione decisiva per la stessa nascita della filosofia e del destino del mondo occidentale. Entrambi queste condizioni , la ricerca (pulsione) della verità ma anche il suo incessante superamento (la rottura del tabù) noi lo troviamo subito dentro al mito greco. Non poteva essere altrimenti per far si, che proprio quella concezione del mito, implodendo su se stesso, alla fine portasse alla filosofia. E chi se non il marinaio filosofo Ulisse poteva incarnare e rappresentare entrambi queste attitudini. Sempre in cerca di scoprire e confrontarsi con nuove visioni del mondo. Perennemente disposto a giocarsi il tutto per tutto per cercare la verità. Lo abbiamo visto quando cerca di entrare a tutti i costi nell’antro di Polifemo, incurante delle suppliche dei compagni che pure adorava. Ma la ricerca della verità va oltre a tutto, anche degli affetti più cari, persino della propria stessa vita. Bisognava rischiarare e sconfiggere le tenebre piene di mostri del vecchio mito: così gli uomini imparano a vedere oltre e Polifemo finisce accecato. Ritroviamo Ulisse capace di trasformare spregiudicatamente un simbolo sacro ormai obsoleto(il cavallo dei troiani, ancora una volta magicamente retrogrado e totemico) in un’arma di distruzione di massa. E infatti proprio per aver infranto questo tabù poi la pagherà cara. L’importanza e la testimonianza della parola vera, anche se inizialmente espressa in modo fantastico, indica da subito quanto fosse forte nel popolo greco la pulsione della verità. Il mito nel mondo greco ha dismesso le sue caratteristiche più arcaiche, proprio perché la ricerca della verità, una volta partita, non si è mai fermata. E’ partita in modo infantile e fantastico, non di meno si è cercata, si è ritrovata e alla fine ha trionfato fondando il nostro mondo occidentale. Già nel mito greco troviamo la presenza di una forza e di un germe (la pulsione della verità) che poi avrebbe dato frutti straordinari sia in ambito mitico ( i poemi omerici che sono la vera culla della filosofia) sia nello sviluppo della filosofia vera e propria. Infatti quel bisogno di verità si svolgeva in un ambito di racconto poetico e fantastico che andava ben oltre le caratteristiche perentorie e dogmatiche di un pensiero esclusivamente mitico religioso. Era si presente l’assoluto, il vero, ma paradossalmente non in modo assoluto , bensì relativistico. La poesia mitopoietica infatti permetteva non solo infinite varianti del mito (cosa che certamente si ritrova presso altri popoli) ma anche infinite sfumature nella elaborazione delle domande e delle risposte, evidenziando una inusitata ricchezza e complessità di posizioni che fanno fatto del mito greco qualcosa di straordinario. Anche se la parola del mito era sempre ritenuta sacra, mantenendo la pretesa e la presunzione dell’assoluto, la realtà era ben diversa: così l’assoluto non precludeva ma si apriva alla ricerca (infinita) della verità. In un certo senso ogni volta gettava la maschera per poi riprenderla subito dopo. Nel mito greco noi troviamo per la prima volta la transizione e la vittoria definitiva del protagonismo antropocentrico (gli dei con sembianze umane) su quello animalesco totemico, sui mostri del caos primigenio. Non solo, ma si determinarono nel corso di tutto il processo della civiltà greca (dall’inizio alla fine) fattori importantissimi affinché questa apertura mentale e culturale restasse tale e non venisse mai smentita . Non c’era un potere statale fortissimo e monolitico tale da controllare, ossessivamente, la produzione culturale; non c’era una casta sacerdotale che imponesse un pensiero unico, non c’era nemmeno una sacra scrittura sulla quale non si potesse tergiversare. Era una produzione poetica e per giunta orale, predisposta alla libertà creativa e alla fruizione di massa (democrazia culturale). Quando il mito venne definitivamente superato la nuova parola d’ordine divenne Aletheia, in cui la verità significa non nascondimento. Ora la pulsione della verità per la prima volta raggiungeva se stessa: questa volta si trattava di strappare tutti i nascondimenti e travisamenti residui del mito, aprendo la storia al primo percorso di secolarizzazione e di laicismo antitradizionale. Anche se raramente la filosofia greca raggiunse l’apice dell’ateismo dichiarato , rimanendo quindi sempre entro precisi limiti di una certa religiosità (ilozoista-animista) , questa era ben strana. Il vero dio era lo stesso avanzamento del sapere e quindi l’esercizio illimitato della intelligenza e della critica. La ricerca del vero dopo aver tentato di rintracciare l’assoluto e nello stesso tempo di nasconderlo , ora cercava di togliergli tutti i veli mitici.
SCIENZA E MAGIA
Vediamo ora il collegamento con la scienza. Apparentemente le due dimensioni, anche considerando la distanza “anagrafica” temporale, sembrano completamente contrapposte e incompatibili. Soprattutto la scienza sembrerebbe basarsi su di un superamento completo nei confronti della magia. Naturalmente questo è vero in gran parte. Tuttavia cercheremo di dimostrare che esistono stupefacenti analogie almeno su di un piano formale e morfologico. Per prima cosa è comunque innegabile che già nel Rinascimento, cioè nel periodo cruciale per la nascita della scienza, la magia (certo una magia già evoluta in quanto alchimia) abbia contribuito in modo significativo alla nascita della scienza. Pensiamo alla figura di G.Bruno, mago dichiarato, che pure disse per primo: “ la materia riceve la forma da se stessa”, contribuendo potentemente al sorgere della mentalità scientifica immanente e materialista; ma pensiamo a Newton scienziato alla mattina e mago alla sera...
-Il primo nucleo in comune tra la magia e la scienza (moderna) è semplice: entrambi puntano a una certa conoscenza della realtà e soprattutto a modificarla praticamente in senso utilitaristico. Entrambi professano e praticano una visione del mondo totale: la prima basata sull’incantamento simbolico, la seconda sul disincantamento “oggettivo”.
-Il rituale magico in senso affabulatorio consisteva nella recitazione di formule orali: queste dovevano sempre essere ripetute esattamente allo stesso modo, pena un pericoloso e penoso fallimento. Ora i protocolli attuali della scienza, previo accordo e purificazione linguistica tra scienziati, puntano a ripetere sempre l’esperimento, rispettando col massimo scrupolo l’ordine linguistico e pratico.
– la magia utilizza parti della natura e la scienza fa lo stesso
– entrambi puntano a forme di onnipotenza per dominare la natura. In questo la magia ha mostrato la illusorietà del suo potere reale scomparendo dal protagonismo conoscitivo e pratico; la scienza ha mostrato purtroppo la propensione nichilista della sua volontà di potenza in senso distruttivo e autodistruttivo.
A questo punto le analogie finiscono qua, adesso appaiono le differenze. La scienza era pubblica, la magia segreta; la scienza utilizzava locali e strumenti particolari (laboratorio) la magia tutta la natura. La scienza utilizzava la matematica applicata in modo particolare (anche se è pur vero che la primissima matematica pitagorica è nata magica). La scienza utilizzava il principio di verificazione matematizzato-quantificato e la magia quello simbolico qualitativo.
Talvolta è accaduto, al massimo livello della suggestione e della trance provocata dai rituali magici, che si ottenessero dei risultati incredibili (superando il tempo e lo spazio). Tutto questo è comunque dovuto al potere straordinario dell’inconscio. È altrettanto vero che questa dimensione rischia di mettere in crisi un razionalismo esasperato e a senso unico. Ad ogni modo è pur vero che, alla fin fine, la magia ha effettivamente prefigurato antelitteram la stessa scienza. Come già visto, l’ha accompagnata, passo passo, nel corso di tutta la sua evoluzione. Tuttavia non è la magia che ha tradito la natura ma viceversa. La magia, nonostante i suoi demoni e le sue più terribili ossessioni, non avrebbe mai distrutto la natura. Certo l’iniziativa antropomorfa dell’uomo fin dall’inizio non ha mai lasciato la natura vergine e incontaminata. Credere questo sarebbe una bufala incredibile (i Neanderthal furono i primi grandi distruttori di foreste in Europa). Sicuramente non sarebbe mai arrivata, a lanciare, e soprattutto realizzare, come fece Hobbes, slogans del tipo “ scassiniamo la cassaforte della natura e rubiamole tutti i suoi tesori”.La scienza nonostante la sua falsa neutralità e il suo disincanto, tanto più ha aumentato la sua “pseudo” conoscenza ( in quanto solo analitica-strumentale votata alla distruzione e allo sfruttamento) tanto più ha quasi distrutto la natura. Alla fine ha creato il manufatto “magico” più diabolico di tutti i tempi: la bomba atomica. Questo per quanto riguarda la pars destruens. Tuttavia una volta superati (questa è la scommessa odierna della vita e della morte; sarà solo utopismo…?) i retaggi e fraintendimenti del positivismo, la scienza potrebbe portarci al salvamento materiale e spirituale, facendo risorgere uno spirito illuminista più critico e maturo, in direzione di un nuovo realismo anti-superstizioso e anti-ideologico. Per raggiungere questo ambizioso e improrogabile traguardo ( prima che sia troppo tardi) la scienza dovrà abbandonare la subdola identificazione con la borghesia capitalista. Dovrà superare il vecchio metodo positivista, errato e ideologicamente compromesso, con le sue tre caratteristiche fondamentali:
– il metodo analitico, il quale separa e smembra il tutto per dominarlo. Fa come si spolpa un’arancia: leva la buccia, separa gli spicchi e poi li lascia senza succo e senza energia. Dopo che ha fatto i suoi comodi lascia solo deiezioni e spazzatura. Se non riusciremo a frenare e riconvertire questo tipo di pseudo scienza questo sarà il triste destino del mondo.
– la prevaricazione strumentale: il mezzo prevale sul fine. Ossia mi concentro sulla potenza tecnica dello strumento, fine a se stessa, e non sulla sua mediazione e ricaduta positiva nei confronti dell’ambiente. Il fine non è il mezzo, con la sua potenza tecnica distruttiva. Il fine è il rispetto dell’ambiente naturale e del contesto sociale.
–la falsa evidenza esatta del calcolo matematico: è questa che dà il vero potere micidiale all’analisi quantificandola. È doppiamente falsa: primo perché non ricerca il vero ma solo l’utilizzo della forza, conseguentemente sovvertendo gli equilibri naturali; secondo perché non ricerca eticamente un fine collettivo. Non credo che si possa definire vera scienza una pistola in mano a dei banditi. Naturalmente la scienza non può certo rinunciare al calcolo esatto, ma non potrà nemmeno più usarlo come il sipario eclatante che nasconde la paralisi o peggio l’annientamento di metodi e valori antitetici sopra presentati.
Tuttavia se si supereranno queste colpe e questi gravi errori, allora potremmo finalmente avere il matrimonio della nuova scienza critica con la filosofia critica, l’unico progetto che potrebbe salvare il mondo. Soprattutto la “nuova scienza” finalmente abbatterà i retaggi della eterna illusione “idealista” che, dalla magia fino ai giorni nostri (ideologia), lascia l’uomo fantasticare senza mai confrontarsi per davvero con la realtà (confronto che, guarda caso, si chiama anche esperimento). In caso contrario noi saremo sempre dentro ai rigurgiti di visioni idealiste vecchie e nuove. In definitiva si tratta sempre della magia e delle sue evoluzioni trasformiste: chiamale religioni, metafisica, ideologie ecc. È vero che il nostro pensiero resterà sempre soprattutto idealista; ma questo sarà la sua fortuna oltre che la sua dannazione. In quanto idealista-mentalista non sarà mai completamente corrispondente alla realtà, ma nello stesso tempo potrà sempre evolversi all’infinito e innalzarsi dai suoi errori e dalle sue mancanze. Sarà sempre in una dimensione di virtuale approssimazione con la realtà senza mai raggiungerla del tutto. Tuttavia è vero che questa dimensione resterà sempre e definitivamente chiusa nel suo circuito magico inaccessibile. Può aprirsi al confronto con le altre menti, altre esperienze e soprattutto fuoriuscire da se stessa per entrare in contatto con la realtà. Sembra sempre un circuito esclusivamente idealista: dalla mente alla mente. La mente dà l’impressione di presiedere a tutto il processo: lo inizia, lo sviluppa e alla fine confeziona il prodotto finale. Ma in realtà non è proprio così. Per fare questo non utilizza solo idee totalmente astratte e di pura coscienza, ma idee impregnate e fecondate da contatti con persone, strumenti, materia. Non utilizza solo, per quanto importante, la verifica deduttiva (come faceva Hegel) ma soprattutto verifica sperimentale. In questo senso, anche se non usciremo mai completamente dall’idealismo, elaboreremo pur sempre un idealismo auto-critico e consapevole, in grado di aprirsi al mondo esterno dopo averlo riconosciuto. Pertanto non è vero che la nostra mente è destinata a restare prigioniera (come dentro la fatale caverna platonica) del circuito magico delle proprie visioni e pensieri autarchici. Vi è una contaminazione strutturale e continua tra pensiero e realtà, se vogliamo la possiamo anche chiamare contraddizione. Èquesta la tigre che la scienza e il pensiero devono cavalcare. Dobbiamo dare la prevalenza al principio di realtà, direi di esistenza ed esperienza, ampliandolo a tutto il vissuto umano. Nello stesso tempo dobbiamo evitare di feticizzare la matematica. Se sottoponiamo il principio di verificazione al dominio formale della matematica super aristocratica e selettiva, finiamo per distruggere e abbandonare tutti i linguaggi che non corrispondono a questi criteri. Nello stesso tempo se facciamo della verifica un assoluto, anche questa si distruggerà da sola inseguendo una purezza irraggiungibile. Soggetto e oggetto, pensiero e realtà, si relativizzano a vicenda escludendo ogni assoluto. Per questi motivi, scomunicare e svalutare completamente la scienza, ci sembra un modo masochista ed equivoco per rinunciare in partenza alla sua trasformazione, abbandonando del tutto qualsiasi forma di razionalità propositiva. A questo punto veramente nessun Dio potrà più salvarci.